
Sing Street raccoglie l'eredità di cult come Saranno Famosi e Purple Rain e racconta attraverso la musica di adolescenze difficili nella periferia dell'impero. Al cinema.
di Emanuele Sacchi
Forse val la pena rievocare ancora una volta "Non si esce vivi dagli anni Ottanta" degli Afterhours di Manuel Agnelli per soffermarsi sull'irriducibilità del decennio più palesemente disprezzato ma segretamente rimpianto del dopoguerra. Dopo i Settanta dell'amarezza dei sogni perduti, del cinismo e della violenza, per molti versi gli Ottanta hanno rappresentato il recupero dell'innocenza, dell'ingenua voglia di cambiare le cose, magari confusamente. Senza ideologie ma con un entusiasmo contagioso. E con forme nuove, liberate dalla sudditanza psicologica nei confronti degli irraggiungibili anni Sessanta. Un particolare passaggio generazionale fotografato alla perfezione da Sing Street di John Carney, un coming of age che si serve della musica pop e rock per raccontare di adolescenze difficili nella periferia dell'impero.
Sopravvivere o sognare: solo due le alternative per Conor detto "Cosmo", che sceglie la seconda e si serve dell'aiuto dei vinili di Jam, Duran Duran, Cure e Spandau Ballet per coronare il suo sogno d'amore e di libertà.
Carney sceglie intenzionalmente la semplicità, un registro quasi dimesso: la prospettiva è quella di un ragazzino che usa il rock per arrivare a una ragazza e incidentalmente scopre di possedere un talento musicale. Tematiche ormai ricorrenti per Carney - suoi Once (Una volta) e Tutto può cambiare - e inevitabilmente accompagnate da una colonna sonora memorabile. Quella di Sing Street, curata da Carney insieme al sottovalutato songwriter Gary Clark, mette in sequenza idoli del new romantic come Duran e Spandau, alfieri goth come i Cure o il pop ricercato di Joe Jackson e Hall & Oates. L'occasione ideale per ripercorrere dieci momenti della storia del cinema in cui la musica degli anni Ottanta è stata protagonista.
Ad aprire il decennio è un film già emblematico sulle contraddizioni che lo contraddistinguono. L'ambizione dei ragazzi della High School of Performing Arts di Manhattan - ballerini, cantanti e attori - li spinge a un gioco al massacro, in cui mentire o sottoporsi a impegni insostenibili pur di accedere all'agognato saggio finale. Il futuro è perennemente incerto, ma l'importante è dare tutto pur di realizzare le proprie passioni. Una fiaba cinematografica che rielabora il sogno americano e si aggiudica diversi Oscar, tra cui la miglior canzone, di Irene Cara, e colonna sonora. Saranno famosi ispirerà serie Tv e varie forme di emulazione, ma soprattutto pellicole iconiche per il decennio a venire, quali Flashdance, Footloose e Dirty Dancing.
Da noi in Italia un titolo pressoché sconosciuto, ma oltreoceano Liquid Sky è un cult, almeno all'epoca della propria uscita. Qualche anno dopo è quasi dimenticato e relegato a fenomeno generazionale. Il film di Slava Tsukerman è una parabola fantascientifica sul cupo mondo della cosiddetta new wave a New York, culla di artisti e di perversione, in cui regnano eccessi, droghe e decadenza. Delle entità aliene si interessano proprio a questa, poiché si nutrono dell'endorfina prodotta dagli orgasmi umani. La musica è protagonista assoluta, in un'istantanea dell'ambiguo ma geniale crocevia tra post-punk, voglia di un nuovo pop e ritorno del glam rock che verrà. Notevole Anne Carlisle, nei panni tanto del protagonista maschile che di quella (bisex) femminile.
Per dire di quanto sia ampio lo spettro degli anni Ottanta, in musica e non, da questa parte dell'oceano nasce invece il cine-panettone, grazie al suo episodio più memorabile e imitato. Vacanze di Natale, capostipite di una serie commercialmente fortunata ma artisticamente spesso sciagurata, è comico e insieme malinconico, attento alle stridenti differenze di classe e accompagnato da una colonna sonora indimenticabile. Da I Like Chopin a Maracaibo, da Sunshine Reggae a Moonlight Shadow di Mike Oldfield, le hit che impazzano in quegli anni ci sono tutte e restituiscono in pieno l'ingenuo e spensierato presente di allora.
Il film di Albert Magnoli, nonostante il fascino vintage e il richiamo biografico alla gioventù di Prince, viene perlopiù dimenticato da chi lo ha visto. Il relativo album, invece, cambia la storia. Purple Rain rivela al mondo il genio di Prince Rogers Nelson, un performer unico capace di unire composizione, esecuzione, ballo e arrangiamento in una persona sola. Destinato a raccogliere l'eredità di James Brown e Jimi Hendrix, Prince ha così tanto da dire al mondo della musica che la sua "parola" richiederà decenni per essere compresa appieno. Purple Rain mostra la via: c'è una rivoluzione sonora da portare avanti e un leader con il talento sufficiente per guidarla.
L'hardcore punk americano, rielaborazione del punk rock di Sex Pistols e Ramones in chiave estrema, tanto musicalmente che politicamente, ha un film-manifesto indiscusso. Repo Man, con protagonista un giovane Emilio Estevez prima dell'ingresso nel brat pack, è una storia folle di fantascienza e disagio giovanile, in cui attori e protagonisti della scena musicale - Black Flag, Circle Jerks o l'eterno Iggy Pop - si mescolano allegramente tra loro. La trama in ogni caso non conta nulla, a determinare il sorprendente successo del film è la sensazione di anarchia fuori controllo, il senso di appartenenza al rovescio della medaglia dell'America di Reagan. Un cult che resiste nei decenni, tra tentativi malriusciti di seguiti e pseudo-remake. Gli anni Ottanta non solo i Simple Minds, sono anche questo.
Al cinema gli anni Ottanta americani dei teenager sono in gran parte rappresentati dall'epopea del brat pack, un gruppo di ragazzi belli ma "possibili" con cui immedesimarsi. Emilio Estevez, Judd Nelson, Molly Ringwald, Rob Lowe: i volti puliti dei giovani insofferenti della reaganomics, che covano istanze di ribellione generazionale senza colore politico. A essere messa in discussione è tanto l'America dei nonni reazionari che quella dei padri hippie. I due titoli cardine, anche da un punto di vista musicale, sono Breakfast Club di John Hughes, con Don't You (Forget About Me) dei Simple Minds scritta appositamente per il film, e Bella in rosa, che prende il nome da Pretty in Pink di The Psychedelic Furs e contiene Please, Please, Please, Let Me Get What I Want degli Smiths, apice di una colonna sonora che sembra l'antologia di un decennio (New Order, Echo & The Bunnymen, Joe Jackson).
Uno dei pochissimi "reduci" del rock precedente a rimanere cool negli anni Ottanta è David Bowie, il trasformista per eccellenza. Absolute Beginners, firmato da un regista da sempre a suo agio con le chitarre come Julien Temple (La grande truffa del rock'n'roll), arriva dopo il successo di Let's Dance e proietta Bowie come guru di un coloratissimo musical sui sogni di un fotografo e dell'attrice di cui è perdutamente innamorato. La bella, Crepe Suzette, ha le fattezze di Patsy Kensit, reginetta delle classifiche con gli Eighth Wonder e sogno proibito di una generazione, e mette la carriera davanti all'amore (tema ricorrente del decennio). In un ruolo compare anche Sade, icona dell'epoca.
Dopo Absolute Beginners Hollywood ci riprova, a trent'anni di distanza: di nuovo un musical, questa volta ambientato negli anni Ottanta anziché girato negli stessi. Protagonista è però l'hard rock, quello grezzo, machista e denigrato dalla critica di Def Leppard, Foreigner e Twisted Sister. Mattatore un Tom Cruise che fa il verso al suo personaggio di Magnolia, gigioneggiando nei panni della rock star Stacee Jaxx. Rock of Ages è encomiabile per passione filologica e per i virtuosismi vocali dei talent da show televisivo che lo interpretano, ma povero cinematograficamente. La gestione della materia comico-grottesca lascia alquanto a desiderare e la pur brillante colonna sonora non è supportata da altrettanta cultura musicale, nozionismo a parte.
L'ultimo arrivato ritorna al principio del decennio, quando i Settanta ancora non hanno deciso di retrocedere del tutto di fronte alla reaganomics. In Tutti vogliono qualcosa di Richard Linklater, il regista di Boyhood passa in rassegna miti americani dell'epoca e non solo - baseball, hardcore punk, disco music - per raccontare di una stagione della vita. Il rito di passaggio che conduce al college e all'età delle grandi scelte, per esorcizzare il quale è fondamentale gettarsi a capofitto nelle mode, per quanto sciocche ed effimere esse possano sembrare. Il titolo proviene da un brano dei Van Halen - la cui traduzione corretta corrisponde all'allusivo "Tutti ne vogliono un po'!!" - ma la soundtrack è un omaggio al crocevia di generi antitetici tra loro che nascevano all'epoca: oltre all'hard rock, spazio a funk (Hot Chocolate), hip hop (Sugar Hill Gang) e post-punk (Devo).