Black Book

L’amore tra un’ebrea ed un ufficiale nazista ha fatto gridare allo scandalo eppure “Black Book” non si è preoccupato del vespaio che ha sollevato alla vigilia della sua uscita nelle sale cinematografiche. Revisionismo di un film non politically correct, questa l’accusa mossa all’ultima opera di Verhoeven che per l’occasione ritorna nel paese d’origine per raccontare la resistenza olandese. Rachel Stein è una cantante ebrea a cui hanno sterminato l’intera famiglia, infiltrata tra le fila dell’esercito nemico ed innamorata di un capitano delle SS. Ispirato ad una storia vera, “Black Book” mostra torture, doppiogiochi, tradimenti e capovolgimenti di fronte in un mondo dove non esistono buoni né cattivi perché il marcio è praticamente ovunque. Verhoeven vuole fare chiarezza su alcuni avvenimenti realmente accaduti, ma salomonicamente tacita le coscienze con un amore che supera le barriere ideologiche proprio quando venivano mandati alla camera a gas milioni di innocenti; qualcuno non ha gradito il tentativo, per giunta mal riuscito, di riappacificazione storica ma il regista di “Basic Instinct” ha lasciato da parte le critiche raccontando solo la sua verità. Sceneggiatura un po’ romanzata e atmosfere eccessivamente patinate, poca tensione e qualche ingenuità nello script rendono tutto troppo hollywoodiano, il risultato non è certo soddisfacente ma il film ha la fortuna di poter contare su un’attrice bravissima: Carice Van Houten. La giovane promessa balla, canta, fa il doppio gioco, rischia la vita per gli amici e per il suo ufficiale tedesco interpretando i dolori di una sopravvissuta. Verhoeven si affida a lei per tenere in piedi un film appena dignitoso che si conclude dopo un lunghissimo flash back nel kibbutz Stein. Lì la guerra fa sentire ancora la sua voce, i soldati imbracciano il fucile e le vittime cadono tra l’indifferenza della gente. Antonello Villani (Salerno)