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“Ema” (id., 2019) è lottavo lungometraggio del regista-produttore cileno Pablo Larraìn.
Film lugubre, amaro, rabbuiato e con ambienti scarni e irriverenti. Solo interni e musica da (s)ballo.
O esterni con panorami e vie, luci artificiali dove ogni giorno è un tramonto e ogni respiro d’amore è solitudine. Sesso come vita sfinita, piatta e senza speranza.
Un figlio che dovrebbe arrivare, uno che arriva. Un film di chiassi inverecondi dove l’interiore è sfinito, è avvilente.
Bruciano i semafori, bruciano i tempi di attesa, si infiammano le tenebre dei personaggi. Ema come simbolo di cuori contorni e di fughe lontane.
Un film stanco, incautamente lento, slegante e fittamente cupo.
I baci, il sesso, l’ansia, i corpi, la persa vita scontrosamente si amalgamo; nel mentre Ema gira e rigira su se stessa. Ha voglia di essere seguita, di fiato, di respiro e di angherie nulle.
Ambienti: suggestivamente amorfi e grigiamente belli; lunghi sguardi della cinepresa, appiattimenti e panorami, vie svuotate e terrazze piene di corpi in movimento; luci appassite e sole in perenne silenzio. Le giravolte notturne su una città in luce artificiale ridestano la socialità persa e il ballo di ragazze sconosciute.
Ema, un simbolo di ragazze intrise e piene di incendi mai visti. Un fuoco di idee che nessuno no conosce. Il contrasto evidente tra una fotografia aggrumata, scarna, spirata, mesta e fosca ricolma, al contrario, ciò che non si vede mai (non vediamo, non vogliamo vedere, non pensiamo di vedere) dentro un corpo (dei corpi unisoni) scontrosamente contro.
Una vita degli eccessi, una vita infausta, una vita svilita. Forse. Forse una vita che appieno rivuole il mondo attorno. Si incendiano quello che si fissa. Un trasmettere sensazioni di paura e di angoscia con fiamme che ardono a nostra insaputa. Ciò che è materia può distruggersi....ma dentro ancora una perenne fiamma. Ema che ha poco o nulla. Che non vede strade nuove.
Il finale, non secco, non tagliato, non deciso, fa, forse, presagire qualcosa. Non sappiamo. Ognuno può solo immaginare. In un incontro fortuito di una Ema qualsiasi.
Ema è una ballerina divorziata; il suo ex Gaston dirige la compagnia dove lei va a ballare. Hanno un figlio adottato che vive di nuovo in un orfanotrofio. Complicazioni di rapporti, di figli naturali e non naturali, di tragedie, di amore e di sesso. Un toccarsi e un baciarsi senza famiglia. Il giovane Polo può rigenerare una speranza nuova? Tutto è perso? Intanto bruciano materiali e il ballo spreca energie di nulle compagnie.
Madre e ragazza, senza un vero destino, trasportata dalle onde dei propri piedi. Una vita intensa e sfiancata.
Arriva lo sguardo di Polo. Tutto in modo duro con parole assenti e linguaggi scarni e pieni di arrovellamenti mentali. Può Ema cambiare il suo giro contro gli occhi del figlio?
Mariana di Girolamo(Ema): interpretazione reale e mai vanitosa, legata e corporea, soavemente buia mentre libera ogni movimento nel ballo di un Cile a ritmo raggaeton. Seduce il grigio mondo attorno.
Stilisticamente preciso e decorosamente pieno di spazi interiori.
Regia: a spirale, bloccata, corposa negli spazi persi. Pare vero che la calligrafia è un’opera di una macchina da presa minuziosa nel porsi.
Voto: 6,5/10 (***); -cinema di cubi-
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