dino70
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mercoledì 24 marzo 2021
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l'' energia di ema che tutto trascina e travolge
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Il grande regista cileno Pablo Larraìn, dopo le fatiche americane del film Jackie, torna in patria, nella bella e colorata città di Valparaiso, tra la cordigliera e il mare e ci regala qualcosa più di un film, una sorta di esperienza totalizzante dove i sensi vengono coinvolti nell’immagine e nella narrazione cinematografica, riscrivendo codici espressivi e comunicativi in una sorta di originalità unica, che stordisce e ammalia.
Larraìn riparte dal “sociale” e ci racconta le vicende della giovane ballerina Ema (interpretata da Mariana di Girolamo, all’esordio e inarrivabile per bravura!) e del suo coreografo-marito Gastòn (Gael Garcìa Bernal spesso attore feticcio del regista ) in una storia che incomincia con il fallimento di un’adozione: dopo neanche un anno i due hanno restituito il piccolo Polo perché venisse affidato ad una famiglia migliore.
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Il grande regista cileno Pablo Larraìn, dopo le fatiche americane del film Jackie, torna in patria, nella bella e colorata città di Valparaiso, tra la cordigliera e il mare e ci regala qualcosa più di un film, una sorta di esperienza totalizzante dove i sensi vengono coinvolti nell’immagine e nella narrazione cinematografica, riscrivendo codici espressivi e comunicativi in una sorta di originalità unica, che stordisce e ammalia.
Larraìn riparte dal “sociale” e ci racconta le vicende della giovane ballerina Ema (interpretata da Mariana di Girolamo, all’esordio e inarrivabile per bravura!) e del suo coreografo-marito Gastòn (Gael Garcìa Bernal spesso attore feticcio del regista ) in una storia che incomincia con il fallimento di un’adozione: dopo neanche un anno i due hanno restituito il piccolo Polo perché venisse affidato ad una famiglia migliore.
Ema è una forza della natura, incontrollabile, che si esprime attraverso il ballo e le sue coreografie, si lascia guidare dall’istinto per travolgere tutto, persone e personaggi, convenzioni sociali e sessuali comprese, perché deve realizzare il suo testardo obiettivo, riprendersi Polo, il bambino adottato, all’inizio mite e affettuoso, poi difficile e problematico: ha bruciato i capelli della sorella di Ema, deturpandone il volto.
E’ così allora che Larraìn finge di usare il musical, ma in realtà adotta il melodramma, ma il suo modus narrativo è virtuosamente scombussolante per lo spettatore, non parte dall’inizio, ma dal centro della vicenda, per poi far dipanare la storia attraverso i contrasti della coppia, le loro fantasmagoriche inquietudini che ben si sposano con il ballo, le coreografie, e le musiche, originali e stordenti, come la stupenda e originale colonna sonora che accompagna il film.
Ema non è una persona o una ballerina, ma un mondo pulsante, inquieto e problematico, piega tutto e tutti al suo volere, perché è l’istinto di libertà assoluta a guidarla, assecondando più il desiderio che la (sovra-)struttura che dovrebbe contenerlo.
Non è un film per tutti, ma è un film per chi ama il cinema e la sincerità sconvolgente, perché istintuale, dell’artista, un’opera che rinnova il linguaggio narrativo e filmico, che riscrive la socialità e la sessualità proiettandoci nella modernità del 21° secolo abbattendo le nostre ipotetiche false certezze, bandendo conservatorismi e ipocrisie rassicuranti, così tanto antitetiche rispetto all’idea di libertà.
Larraìn ci regala una pietra miliare, raramente mi è capitato di vedere un film così sconvolgente nella sua creativa originalità, da cui è appagante farsi travolgere.
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marco
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martedì 1 settembre 2020
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l'angelo dannato di larraín
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Pablo Larraín, dopo la parentesi hollywoodiana di Jackie, con Ema ritorna nel suo Cile cimentandosi coi temi sociali insiti nella sua prima filmografia (chissà che disastro se Ema avesse incontrato Tony Manero). Con la figura di questa donna/bambina inquieta e disagiata, poi ribelle e brutale, Larraín ci pone di fronte a tutta l’angoscia, l’indigenza, l’inadeguatezza che la società di oggi può provocare nell’individuo scatenando in esso reazioni incontrollate spesso più legate alla sfera dell’istinto che a quella della ragione. Ema è dunque un angelo dannato, una figura ammaliatrice, personificazione di una lotta per l’emancipazione violenta e autodistruttiva il cui fine sembra essere un concetto più ampio e assoluto di libertà.
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Pablo Larraín, dopo la parentesi hollywoodiana di Jackie, con Ema ritorna nel suo Cile cimentandosi coi temi sociali insiti nella sua prima filmografia (chissà che disastro se Ema avesse incontrato Tony Manero). Con la figura di questa donna/bambina inquieta e disagiata, poi ribelle e brutale, Larraín ci pone di fronte a tutta l’angoscia, l’indigenza, l’inadeguatezza che la società di oggi può provocare nell’individuo scatenando in esso reazioni incontrollate spesso più legate alla sfera dell’istinto che a quella della ragione. Ema è dunque un angelo dannato, una figura ammaliatrice, personificazione di una lotta per l’emancipazione violenta e autodistruttiva il cui fine sembra essere un concetto più ampio e assoluto di libertà. Il fine è giusto, i metodi con cui lo si persegue no. Ma siamo certi che la colpa sia dell’individuo? È questo uno degli interrogativi che più viene da porsi guardando gli occhi di Ema, uno sguardo profondo ma imperscrutabile, che non fa trapelare le sue emozioni (eccetto che per un istante verso la fine del film), anzi, le trattiene quasi fossero un’arma da usare contro gli altri. Un’interpretazione che l’azzeccatissima Mariana Di Girolamo riporta sullo schermo con una recitazione a tinte horror mai sopra le righe, anche se, è evidente: Ema è un vulcano che sta per esplodere, è solo questione di tempo. In questo senso, Larraín è bravissimo ad utilizzare le scene di danza (Ema è una ballerina) facendocele percepire quasi come fossero sinistri rituali condensatori di un’isteria collettiva latente (qui ho percepito delle assonanze col Suspiria di Guadagnino); d’altronde Ema è un po’ una strega e le compagne di danza sono certamente le sue adepte. Dunque con Ema Pablo Larraín colpisce ancora: grande cinema per gli occhi e per la mente (passando inevitabilmente “per lo stomaco”); una storia molto al femminile, ricca di concetti (forse talvolta un po’ troppo reiterati), con un’aspra critica ai retaggi culturali del passato che qui sono rappresentati dal maschio che col suo machismo retrogrado si copre di ridicolo, scadendo inevitabilmente nel patetico.
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