Capri-Revolution

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Living Theater o dadaismo? Valutazione 3 stelle su cinque

di vanessa zarastro


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venerdì 11 gennaio 2019

Con questo film il regista Mario Martone chiude la trilogia sulla costruzione d’Italia realizzata dall’Unità (“Noi credevamo” del 2010), vista attraverso la vita di Giacomo Leopardi (“Il giovane favoloso” del 2014), fino all’avvento del Novecento (“Capri Revolution”). Siamo nel 1914, alla vigilia della Grande Guerra, e a Capri la popolazione vive di agricoltura e pastorizia. Sull’isola deve ancora arrivare l’elettricità e giungono solo echi di ciò che sta avvenendo nel resto del mondo. Le donne lavorano la terra, si sposano e fanno figli, cucinano, servono a tavola e non parlano in pubblico.
In una casa minuscola e arroccata vive la capraia Lucia (Marianna Fontana) con i due fratelli (Gianluca Di Gennaro e Eduardo Scarpetta), con la madre (Donatella Finocchiaro) e un padre molto malato, poiché aveva lavorato in fabbrica a Bagnoli dove si era rovinato i polmoni. Il giovane medico condotto (Antonio Folletto), da poco sbarcato finalmente sull’isola, non può che constatare la gravità del male del padre di Lucia. Lì vicino vive una comunità cosmopolita, basata sulla condivisione e sulla liberazione sessuale, e i suoi membri vengono da vari paesi europei (Germania, Svezia, Svizzera, Regno Unito, Olanda), praticano il nudismo, suonano vari strumenti e danzano al mare, alla luna, alla Natura. Il gruppo è pacifista, crede nel contatto fisico spontaneo che crea calore e il passaggio di energia provoca varie cose, anche la levitazione. La comune è una sorta di setta naturista e vegetarianaante litteram, che si cura con l’omeopatia, e con la psicoterapia. Il guru del gruppo è Seybu (Reinout Scholten van Aschat), un artista, pittore e pianista, che protegge con amore i propri accoliti, anche da qualche membro provocatore che sarà prontamente allontanato, come nel caso di un fanatico pagan-nietzschiano. In effetti, agli inizi del Novecento il pittore tedesco Karl Wilhelm Diefenbach, tra il 1900 e il 1913, aveva realmente costituito a Capri una comunità immersa nella Natura, cui Martone fa esplicito riferimento. L’isola magica di montagna dolomitica nel Mediterraneo, all'inizio del Novecento aveva attratto vari gruppi utopistici con ideali di libertà, e oltre alla comune pacifista ha ospitato anche gli esuli russi che, invece, si preparavano alla rivoluzione.
Tre Weltanschauung sono quindi rappresentante in “Capri Revolution”: il conservatorismo di un’Italia contadina che considera le donne poco più che animali da riproduzione, una visione naturistica con matrice spiritualista indiana, e una visione materialista rivoluzionaria e atea – «confidiamo nella Madonna, dottò» dice la madre di Lucia, «confidiamo nella scienza» ribatte Carlo, il medico condotto.
La nostra ribelle eroina è affascinata dai membri di questa comunità, così diversa da ciò che lei conosce – «è vero che site nu diavolo?» chiede a Seybu - e si trova a spiarne i movimenti quando porta le capre a pascolare, ma anche di notte verso l’alba quando esce di nascosto di casa. Piano piano, Lucia sarà sempre più attratta da loro e, una volta morto il padre, va a stare con la comunità, non sopportando che i fratelli decidano della sua vita al suo posto.
Sarà così derisa dalla popolazione, sbeffeggiata dagli scugnizzi dell’isola e allontanata dai fratelli. Solo il giovane medico, forse un po’ invaghito di lei, continua a vederla e a preoccuparsi della sua salute, ma la sua filosofia razionale di vita entra in palese contrasto con quella trascendental-spirituale professata dalla comunità.
Scrive Roberto Manassero su cinematografo.it: «Si potrebbe perciò discutere sull’attualità del contro-pensiero proposto da Martone, sull’efficacia anche solo ideale del modello utopico indicato da Beuys e da altre esperienze artistiche degli anni ’60 (dal Living Theater alle esperienze di teatro laboratorio), oggi affascinanti da ripensare ma non si sa quanto adatte all’asimmetria sfuggente della contemporaneità».
Ottime musiche contemporaneo finto-primitive di Sascha Ring e Philipp Thimm (premiate all’ultima Mostra di Venezia), intense fotografie e splendida interpretazione di Marianna Fontana. I dialoghi sono di grande interesse, anche se si fatica un po’ a seguirli leggendo i sottotitoli. Magari al posto di Martone (co-sceneggiatore con Ippolita Di Majo) io avrei tagliato qualche scena della comunità e forse avrei fatto vedere un po’ più la vita della popolazione isolana. Un’unica domanda: come fa una capraia ventenne analfabeta, che non sa neanche cosa sia un’infermiera, a parlare in inglese piuttosto bene dopo così poco tempo, quando non conosce neanche l’italiano? 

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