Ho avuto la fortuna di vedere Burning proiettato in un cinema in città, sottotitolato in italiano, e il fascino della sala non si discute: ho fatto bene.
Il film è molto particolare, per il suo incedere lento (esasperato anche per chi conosce già i tempi del cinema coreano) e mi ha lasciato addosso una sensazione nuova. Ma andiamo con ordine.
C'è lui e c'è lei. Qualcosa nasce ma fatichi a capire cosa sia. La lenta scansione degli eventi è esaltata dalla difficoltà che ho trovato nell'empatizzare col protagonista, ambiguo, sfuggente, trasparente, vuoto: una persona che stenti a riconoscere. E poi arriva l'altro. Scompiglio.
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Ho avuto la fortuna di vedere Burning proiettato in un cinema in città, sottotitolato in italiano, e il fascino della sala non si discute: ho fatto bene.
Il film è molto particolare, per il suo incedere lento (esasperato anche per chi conosce già i tempi del cinema coreano) e mi ha lasciato addosso una sensazione nuova. Ma andiamo con ordine.
C'è lui e c'è lei. Qualcosa nasce ma fatichi a capire cosa sia. La lenta scansione degli eventi è esaltata dalla difficoltà che ho trovato nell'empatizzare col protagonista, ambiguo, sfuggente, trasparente, vuoto: una persona che stenti a riconoscere. E poi arriva l'altro. Scompiglio. Più emotivo che visivo, sia chiaro, perché il riflettore è sempre sopra il solito Jong-su che osserva, valuta, rimugina ma non agisce, a volte dubiti addirittura che pensi. E c'è qualcosa in Ben che ti colpisce, ti attira, perché lui è magico, è bello e curato, non lascia nulla al caso, è sicuro di sé e gioca per vincere, qualunque sia la partita; ma anche qualcos'altro che spaventa perché non riesci a decifrarlo, è ovvio che ti nasconda qualcosa, e l'ombra più scura che sa di indicibile e orrendo va scartarla a priori, non va bene accanto a lui, non finché non avrai provato con tutte le forze a vederci chiaro. Ma è difficile a causa della sua stessa, carismatica abilità.
Tutto il film scorre tra equilibri esili, intenzioni appena accennate, sospetti, intuizioni e smentite. Vibrante la tensione alimentata dalla colonna sonora, subdola. Poi arriva il finale, istintivo e tumultuoso, e il crescendo giunge al culmine.
E a quel punto, sui titoli di coda, ho capito: ho capito che la costruzione del film è un enigma nel quale il regista ha giocato con me, mi ha mostrato il ruolo che dovevo giocare ed io ho giocato, senza rendermene conto. Ho fatto perfettamente la mia parte, ho capito la direzione dalle carte che egli stesso mi ha passato ed ho raggiunto l'unico finale di partita possibile: godermi il film come una nuova (ennesima) esperienza che mi ha lasciato la voglia di vederlo (giocare?) ancora.
Splendido.
A margine, la sequenza di Hae-mi che danza nel tramonto è una parentesi di assoluta magnificenza nel film: poetica, tenerissima, calda del pieno della "grande fame" di cui Hae-mi stessa è consumata. Gli uomini sono lì ma lontani, piccoli, annebbiati e assenti, la telecamera è solo per lei e se lo merita: nella fusione totale tra la giovane donna e l'abbraccio malinconico della natura, un solo altissimo istante di pace, prima della fredda cenere.
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