writer58
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lunedì 12 febbraio 2018
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il potere della verità
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Il film di Spielberg "The Post" s'inserisce all'interno di un filone collaudato che tratta dei rapporti tra potere politico e "quarto potere" e che esalta il coraggio dei giornalisti nel rivelare trame, macchinazioni, manipolazioni esercitate dalle istituzioni. Nel caso specifico, il governo degli Stati Uniti che, pur consapevole dell'impossibilità di vincere la guerra in Vietnam, ha mentito al popolo americano, accreditando progressi militari inesistenti, mirati a coprire l'umiliazione della sconfitta. Una guerra che, è opportuno ricordarlo, ha provocato, solo tra le forze americane, quasi 60.000 morti, più di trecentomila feriti e ha visto impegnate, nel momento dell'escalation del '69 , più di mezzo milione di soldati.
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Il film di Spielberg "The Post" s'inserisce all'interno di un filone collaudato che tratta dei rapporti tra potere politico e "quarto potere" e che esalta il coraggio dei giornalisti nel rivelare trame, macchinazioni, manipolazioni esercitate dalle istituzioni. Nel caso specifico, il governo degli Stati Uniti che, pur consapevole dell'impossibilità di vincere la guerra in Vietnam, ha mentito al popolo americano, accreditando progressi militari inesistenti, mirati a coprire l'umiliazione della sconfitta. Una guerra che, è opportuno ricordarlo, ha provocato, solo tra le forze americane, quasi 60.000 morti, più di trecentomila feriti e ha visto impegnate, nel momento dell'escalation del '69 , più di mezzo milione di soldati.
La vicenda che Spielberg dipana è abbastanza nota: prima il New Iork Times, poi il Washington Post entrano in possesso nel 1971, di documenti riservati del governo americano (il rapporto McNamara) che attestano come almeno tre presidenti USA fossero pienamente consapevoli dell'andamento sfavorevole del conflitto in Vietnam, ma che hanno proposto un'immagine distorta della guerra per evitare i contraccolpi politici di una ritirata davanti al "nemico comunista".
Il New Iork Times pubblica alcun stralci del rapporto, ma riceve un'ingiunzione della Corte Suprema che impone di sospendere la pubblicazione del materiale. Il Washington Post, a cui perviene il rapporto quasi nella sua interezza, decide di sfidare la proibizione, nonostante attraversi una fase delicata (sta per quotarsi in borsa e le banche che sostengono l'offerta pubblica potrebbero ritirarsi nel caso di provvedimenti giudiziari restrittivi). L'editore (Katharine Grahan, interpretata da Maryl Streep) mette a repentaglio la sua reputazione e l'esistenza stessa del giornale, ma decide di mantenersi fedele al primo emendamento e al principio che "la verità dei giornali non serve ai governanti, serve ai governati”".
Il film ricostruisce le giornate convulse che precedono (e seguono) lo scoop, i pareri contrastanti all'interno della redazione, i rischi che l'operazione comporta per la sopravvivenza della testata, i dubbi che tormentano la Grahan, trovatasi quasi per caso a dirigere il giornale e, all'inizio, restia ad autorizzare la pubblicazione. Lo fa con uno stile secco e incisivo, efficace e allo stesso tempo poco spettacolare, che "fa entrare" lo spettatore nella redazione del giornale, lo "immerge" nell'ambiente del Post e delle sue macchine da scrivere, gli fa respirare gli slanci ideali e la vocazione democratica dei giornalisti e dei movimenti di protesta alla guerra, ma anche i timori della rovina che s'abbatterebbe sul Post in caso di sconfitta.
Un film girato in fretta, abbandonando progetti già avviati, per ribadire l'importanza di un giornalismo libero e indipendente, in un momento in cui i media - televisivi e non- sono oggetto di pesanti attacchi e di delegittimazioni da parte della Presidenza Trump, a riprova che i rapporti tra potere politico e carta stampata presentano una conflittualità ciclica che riemerge come un fiume carsico.
Ieri Nixon, oggi Trump, ma gli anticorpi sono- almeno c'è da augurarselo- superiori alle derive autoritarie.
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zarar
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giovedì 8 febbraio 2018
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stampa e potere, donna e potere
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Il film si inserisce in un filone, caro agli americani, dedicato alla stampa e alla responsabilità del giornalista rispetto al potere da una parte e ai lettori dall’altra, che dal classico Citizen Kane (Quarto potere, 1941) arriva sino a State of Play (2009) e al recente Spotlight (2015). Niente da meravigliarsi se Spielberg ha interrotto un altro film per dedicarsi a questo The Post anima e corpo, tenuto conto dell’urgenza politica di tornare sul tema in un clima di pessimi rapporti tra la stampa liberal-democratica americana e il Presidente, in un momento in cui guardiamo ammirati e un po’ invidiosi alla assoluta libertà e franchezza – a dir poco – con cui un New York Times, per es.
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Il film si inserisce in un filone, caro agli americani, dedicato alla stampa e alla responsabilità del giornalista rispetto al potere da una parte e ai lettori dall’altra, che dal classico Citizen Kane (Quarto potere, 1941) arriva sino a State of Play (2009) e al recente Spotlight (2015). Niente da meravigliarsi se Spielberg ha interrotto un altro film per dedicarsi a questo The Post anima e corpo, tenuto conto dell’urgenza politica di tornare sul tema in un clima di pessimi rapporti tra la stampa liberal-democratica americana e il Presidente, in un momento in cui guardiamo ammirati e un po’ invidiosi alla assoluta libertà e franchezza – a dir poco – con cui un New York Times, per es., commenta la politica di Trump. Spielberg è un maestro e attori del peso di Meril Streep e Tom Hanks danno alla sceneggiatura di questa storia (vera) una forza a cui è difficile sottrarsi, anche se una sensazione di déjà vu e di assoluta prevedibilità degli eventi ci segue dall’inizio alla fine . Alla vicenda della contrastata pubblicazione nel 1973 di documenti classificati top secret sulla guerra del Vietnam, testimonianti la consapevolezza della classe politica lungo tre mandati presidenziali che mai la guerra si sarebbe potuta vincere pur nella determinazione a portarla avanti per non umiliare l’onore del paese, si intreccia la storia personale di Katharine Grahan, prima direttrice donna di un grande quotidiano, chiamata alla difficile decisione di sfidare Presidente, poteri forti e Corte Suprema, ma anche amici e consiglieri, in nome della libertà di stampa. Figura capitata alla testa del Post quasi per caso, faute de mieux, tutto meno che un temperamento battagliero, persino incerta e accomodante, proprio in questa circostanza maturerà una coscienza di donna che sfida persino il proprio carattere in nome della dignità del suo ruolo di editore indipendente. Seguiamo con partecipazione, sottoscriviamo tutti i sacri principi enunciati, sentiamo l’importanza dell’assunto nel momento presente, ma non gridiamo al capolavoro. Tecnicamente ineccepibile, convenientemente teso, il film non ha quel quid che lo rende originale e unico. Anche Meril Streep sembra spingersi troppo avanti nella caratterizzazione di una upper class wealthy woman anni ’60 prestata all’editoria, con un manierismo che le fa perdere la consueta forza e intensità interpretativa. Ciò è accentuato, nell’edizione italiana, da un doppiaggio discutibile, un birignao lamentoso che la rende irriconoscibile. Tre stelle e mezzo.
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(di antoniomontefalcone)
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loland10
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domenica 18 febbraio 2018
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stampa in (post)azione
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“The Post” (id., 2017) è il trentunesimo lungometraggio del regista di Cincinnati Steven Spielberg.
All'ennesimo film Spielberg si circonda e ci circonda di un suggestivo racconto con una coralità ed essenzialità riuscite con intriganti immagini di interni tra una redazione strapiena e un subbuglio politico di la da venire.
Una pellicola a soggetto, dove ogni particolare e oggetto, fiato e rumore, passo e decisione, scrivania e stampa, sono al loro posto per identificarsi. Una sottrazione elementare, una peculiarità essenziale che rende il tutto un mestiere per pochi. In sordina e in tono minore è il porsi ma i modi sono di un cinema in disuso e di una capacità attrattiva: pochi fotogrammi e giuste sollecitazioni.
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“The Post” (id., 2017) è il trentunesimo lungometraggio del regista di Cincinnati Steven Spielberg.
All'ennesimo film Spielberg si circonda e ci circonda di un suggestivo racconto con una coralità ed essenzialità riuscite con intriganti immagini di interni tra una redazione strapiena e un subbuglio politico di la da venire.
Una pellicola a soggetto, dove ogni particolare e oggetto, fiato e rumore, passo e decisione, scrivania e stampa, sono al loro posto per identificarsi. Una sottrazione elementare, una peculiarità essenziale che rende il tutto un mestiere per pochi. In sordina e in tono minore è il porsi ma i modi sono di un cinema in disuso e di una capacità attrattiva: pochi fotogrammi e giuste sollecitazioni. Il cinema è di livello inconfondibile quando sembriamo alla pari ma lo sguardo misurato va ben oltre ogni inquadratura.
La regia avvolgente e a fianco ad ogni volto, camminata e gruppo mostra il piglio migliore e mai domo di una cinepresa attaccata su ciascun personaggio. La carrellata iniziale in Vietnam (con la macchina da scrivere che aspetta nei tasti da battere) con i soldati che macinano passi sotto la pioggia battente aspettando il nemico, fa da ’trait d’union’ con quella nella redazione del Washington Post tra il corridoio che divide scrivanie piene e macchine che sentono le dite di ciascun giornalista. Come non pensare a film antecedenti mentre la camminata del redattore capo misura i passi dentro l'ufficio che sembra piccolo per farsi riprendere è quantomeno spazioso per far girare il quadro tra tutti i volti che man a mano suggellano gli intervalli di ogni ansia di pubblicazione. La cinepresa del regista sembra ballare, scivolare, spingere e favoleggiare sulle labbra di ogni giornalista con le parole pensanti che escono dalla bocca. Un parlare quasi asfittico, misero e secco mentre l'interno, e ciò che resta di esso, sbava per una prima pagina da rubare è un risucchio di titolo dal concorrente New York Times.
Ci vuole qualcosa di grosso per tirare su il giornale. E il qualcosa scotta. Telefonate fuori sede, ansia dei numeri, gettoni che cadono. Motel fuori zona, arrivo notturno, passi veloci, acqua sotto le scarpe, si bussa, il numero otto si apre e Ben Bagdikian incontra Robert McNamara. I documenti segreti sono tutti lì: consegnati in due scatoloni. Lo slegare la corda e l’apertura pare qualcosa di già visto nel cinema del regista. Miriadi di frasi, date e foglie senza impaginatura. Il top secret è vietato.
Alla fine i giornali concorrenti diventano uno spalla dell'altro. Quasi un segno del destino mentre il Presidente in modo perentorio fa sentire la sua voce. Mai e poi mai i giornalisti del Post saranno vicini alla Casa Bianca: una vera e propria epurazione . È l'inizio della fine per Nixon e da lì verrà lo scandalo Watergate.
Siamo nel 1971 quando il ‘Washington Post’ si trova tra le mani migliaia di documenti segreti che possono inficiare sulla Politica e nascondono l'occultamento di più presidenti sui finanziamenti e la guerra in Vietnam. Documenti liberi da pubblicare? Decisione non semplice per un giornale che vuole verità e darla ai governanti senza il passo è la mediazione del governo. Ci prova più di uno ma i documenti hanno il si di Kay Graham (Meryl Streep) che da donna indecisa diventa il passo decisivo per il Post.
Avvocati inchinati, politici censurabili, voci corrotte e giornalismo veramente libero. Basta sentire la telefonata del vice di turno al Post, dopo la prima pagina che rivela i documenti nascosti, e vedere la postura di Ben Bradlee (Tom Hanks) mentre ascolta dalla cornetta e noi con lui. Naturalmente si vuole lo stop di tutto per non avere conseguenze. Risposta di compiacimento per la perdita di tempo (della Casa Bianca) e acidità incontrollabile nel ringraziare l'inutile blocco dall'alto della pubblicazione dei documenti. Che scrigno d'oro (si fa per dire) nelle corde vocali di un uomo che vorrebbe occultare ogni notizia per il Presidente.
E le riprese dall'esterno della finestra mentre si vede una sagoma indefinibile ma riconoscibile che parla al telefono è pura lezione di cinema. Pochi secondi, poche parole, pochi incisi mentre le copie del Post sono lì fuori ad attendere l’acquisto e la lettura: uno sberleffo e uno schiaffo vero al Governo che chiude. Libertà di stampo per chi è governato.
Rimani in carreggiata deragliando, rimani sul pezzo con acume libero facendoli deragliare.
L'ultimo Spielberg è conquista di spazi inermi, di strettoie, di chiaroscuri, di corridoi falcidiati e di un ascensore che ridesta lo sguardo stupito di un ragazzo tutto fare (mentre spia il titolo del giornale concorrente). Ecco le notizie sono lì sopra ma non vedi il dietro, la sagoma dietro le finestre e le voci quasi in controluce e con una cornetta alleggerita dei destini è il guasto marcio di una politica nascosta, esecrabile.
“Come mai sei qui alle otto…”. “Tu sai per chi lavori …”. Ecco la ragazza che serve lo Stato e porta materiale al Processo (Stampa e Politica si incontrano) vede la vittoria di suo fratello (ancora in Vietnam) da riportare in patria, mentre parla con Kay Graham all’entrata in aula. “Faccio il tifo per lei ma non lo dica a nessuno altrimenti mi licenziano”. Ecco che i governati, nonostante l'arroganza dei governi, hanno già il sentore di quello che accadrà. E’ una donna della redazione a ricevere la sentenza (sei a tre) con una telefonata. Non si vede nessun testimone, non si vede nessuna seduta: il telefono racconta dal giornale una vittoria delle pubblicazioni.
Ecco il film di Spielberg si basa molto su particolari che sembrano superflui ma che danno il la a notizie, spostamenti, riunioni, telefonate, diatribe, paure e sentenze. Quando la goduria della corsa tra una scrivania e una strada affollata riecheggia nei rumori di fondo di vecchie macchine da scrivere, si ha la sensazione di una palpitazione oramai persa e di un fuori onda senza racconto. Vecchio stampo, vecchio giornalismo e la carta dei giornali che arieggia cadendo in pacchi come un tonfo sull’asfalto vicino ad edicole e vendite in strada.
Per la pubblicazione dei documenti segreti, Spielberg ci dà il piatto tra Kay, Ben, incontri, telefonate, l’articolo in prima, la correzione, l’orario dopo mezzanotte, il sì del capo e la partenza delle rotative. Una sequenza di vero cinema e la scrivania che si muove (quando la stampa inizia), quella di Ben Bagdikianche sente il cuore della notizia come un’emozione vera (e noi con lui). I due Ben sembrano quasi identificarsi con gusto sulla macchina da scrivere e con le mani conserte come Kay Graham riesce a fare dopo una lunga notte. E dopo il sì per pubblicare dice: ‘Adesso vado a letto’.
Trump(ismo) non Trump(ismo), di questi tempi (e anche di ieri) meglio debordare e lasciarsi andare perché la politica del contenimento di notizie compromettenti e pericolose è confinata in uno scatolone che si apre come un miraggio o una Fata Morgana d'altri tempi. E i documenti di pagine e pagine sono tutti sparsi. Pavimento, tavolo e mani che sfogliano e occhi che leggono. “Siccome non sei un romanziere ma un giornalista”. Solo sette ore per un prima pagina. “Datti da fare”… ordina Ben Bradlee.
Ho da darti qualcosa di bollente E l’entrata in una notte di scambio; Proteste e ingiunzione processuale; Ostracismo presidenziale e una donna contro la(’) (auto)censura; Schiena diritta, è (s)comodo ogni silenzio riluttante, è viva ogni pagina rumorosa; ‘Tutti gli uomini del Presidente’ (film d’attacco da rivedere -1976 di Alan J. Pakula): ecco l’ultimo colpo per il proseguo omaggio nell'ultima inquadratura. E la musica incanta l’oscurità di un’indagine ancora palpabile. Per tale arrivano i titoli di coda. Uno scorrere di nomi come le rotative di un quotidiano da stampare (il cartaceo rimane tra le nostre mani come a tutta la redazione che legge in contemporanea il Post: clamore di un tempo gridato e di un presente da svegliare).
Nel classico film che disegna dei tempi architettonicamente poco invasivi, Spielberg si fa quasi da parte, segue le voci e i movimenti dei suoi personaggi, e libertà il sovrappiù per una pellicola lineare, armonica, intensa e priva del gioco come tale.
Il cast è di una coralità interpretativa efficace: ricordiamo tutti. Naturalmente i dialoghi fra Kay (Meryl Streep) e Ben (Tom Hanks) sono da assaporare. L’incontro colazione in una sala con luci soffuse, chiaroscuri e maestranze eleganti, arriva anche l’inciampo di una sedia che cade, lo sfogliare del giornale e un tavolo già pronto. Mosse, eleganze, mugugni, parole dimesse e spassosi movenze di un cinema trascorso. Il passo è breve per una telefonata: il mettere l’apparecchio richiesto è già una vista ‘d’antan’ . Ogni oggetto pare a proprio agio, ogni persona pare a posto ma, anche, tutto è in disordine e ogni volto è coperto da cera pronta a sciogliersi per un futuro più promettente. La miseria del destino di una vita è scritta dentro un quadro ben incorniciato. Tra gli altri rimane il volto di Bob OdenKirk (Ben Bagdikian) e la sua matita che cancella i nomi come le telefonate, Jesse Plemons (Roger Clark) e l’avvocato governativo, Zach Woods (Anthony Essaye) che corre e sbircia fino alla 43th, Tracy Letts (Fritz Beebe) che pare decisionista ma per le sue tasche. Tutti, e gli altri, hanno una misura di come si recita con convinzione ‘da prima pagina’.
La fotografia di Janusz Kaminskiammorbidisce, attutisce, inebria e allarga gli ambienti, tra un ufficio, le scrivanie, un salotto, un divano e una strada da attraversare.La colonna sonora di John Williams (oramai il suo connubio con il regista di Cincinnati è un accordo immagini note da pelle d’oca in più frangenti) segue l’itinerario come pochi sanno fare fino ad uno ‘schiaffo’ sonoro per arrivare alla postilla nota bene dell’ultimo fotogramma.
La regia di Spielberg ha il ‘presente’ di un riassunto metodico e sagace dei suoi trascorsi, letti e visti. Il paesaggio e l’immaginario cadono oltre le inquadrature. Messa in scena, giravolte, visi e arguzia d’impatto lasciano una storia di ‘domani’. ‘Non per i governanti ma per i governati’.
Voto: 10/10. (*****)
p.s.: tre loghi di distribuzione (O1, Rai, Leone Group) e quattro di produzione (DreamWorks, 20thFox, Partecipant media, Star Thrower).
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marionitti
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venerdì 2 febbraio 2018
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tutto qui?
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Al cinema mi sono seduto bello carico di attese. La squadra stellare, con Spielberg dietro la macchina da presa, c'era una storia importante, che riguardava questioni scottanti e sempre attuali, il tema era quello del giornalismo che è tra i miei preferito. Due ore per raccontare la decisione del Post se sfidare Nixon e rischiare l'incriminazione pubblicando documenti segreti sulla guerra nel Vietnam. Alla fine mi sono alzato chiedendomi: "Tutto qui?" Ho assistito ad un compito ben svolto, inquadrature da manuale, fotografia d'epoca, la frase giusta al momento giusto, l'enunciazione di qualche principio irrinunciabile e solenne, ma non mi sono emozionato, non mi sono scandalizzato, non ho percepito la tensione morale dei protagonisti.
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Al cinema mi sono seduto bello carico di attese. La squadra stellare, con Spielberg dietro la macchina da presa, c'era una storia importante, che riguardava questioni scottanti e sempre attuali, il tema era quello del giornalismo che è tra i miei preferito. Due ore per raccontare la decisione del Post se sfidare Nixon e rischiare l'incriminazione pubblicando documenti segreti sulla guerra nel Vietnam. Alla fine mi sono alzato chiedendomi: "Tutto qui?" Ho assistito ad un compito ben svolto, inquadrature da manuale, fotografia d'epoca, la frase giusta al momento giusto, l'enunciazione di qualche principio irrinunciabile e solenne, ma non mi sono emozionato, non mi sono scandalizzato, non ho percepito la tensione morale dei protagonisti. Troppi "non" per essere soddisfatto.
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samanta
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martedì 13 febbraio 2018
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autoreferenzialità espressa in film
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Il film pare fretettolosamente (e si vede) fatto da Spielberg descrive l'estate del 1971 quando il New YorK Times venuto in possesso di alcuni documenti segreti del Pentagono sulla guerra in Vietnam li pubblicò, malgrado l'opposizione governativa, si aggiunse IL Washington Post che era giunto in possesso di tutti i documenti della guerra che dimostravano che fin dal Presidente Truman la volontà di intervenire nel Sud-est asaitico, specialmente dei dossier riguardanti del ex ministro Mcnamara ministro della difesa durante le presidenze di Kennedy e di Johnson. Dai documenti si evince che pur avendo gli esperti dimostrato che la guerra era persa Mcnamara continuava a dire in pubblico che stavamo vincendo.
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Il film pare fretettolosamente (e si vede) fatto da Spielberg descrive l'estate del 1971 quando il New YorK Times venuto in possesso di alcuni documenti segreti del Pentagono sulla guerra in Vietnam li pubblicò, malgrado l'opposizione governativa, si aggiunse IL Washington Post che era giunto in possesso di tutti i documenti della guerra che dimostravano che fin dal Presidente Truman la volontà di intervenire nel Sud-est asaitico, specialmente dei dossier riguardanti del ex ministro Mcnamara ministro della difesa durante le presidenze di Kennedy e di Johnson. Dai documenti si evince che pur avendo gli esperti dimostrato che la guerra era persa Mcnamara continuava a dire in pubblico che stavamo vincendo. Il Washington Post li pubblica per volontà del Direttore Bradlee (Tom Hanks) dopo avere vinto le indecisioni della proprietaria Graham (Meryk Streep), ("è la stampa bellezza!" Bogart in L'ultima minaccia) e la Corte Suprema darà ragione ai giornali perché sono al servizio dei governati e non dei governati. Un cenno al film non è particolarmente appassionante, girato non in modo accurato con un ottima interpretazione di Tom Hancks anche se sottotono rispetto alle precedenti, quanto Meryl Streep ormai interpreta Meryl Streep è diventata la vestale del politically corrrect può dire 3 anni fa che Weinstein "è un dio" e adesso il peggiore degli uomini che per tutti va bene, fa il suo film gigioneggia con la sua indubbia capacità artistica ed ha la solita designazione all'Oscar. Il film poi ha un contenuto discutibile la guerra in Vietnam fu voluta da Kennedy che fece rovesciare il governo Diem per sostituirlo con fantocci corrotti e inviò i primi soldati, da Johnson che inviò oltre 500.000 soldati, Mcnamara appare come intimo nemico dei magnati della stampa e della sig.ra Graham il direttore era amico di Kennedy, è inverosimile che al Washington Post non avessero capito proprio nulla (lo stesso discorso vale per gli altri giornali dell'establishment), in otto anni questi incorrutibili giornalisti malgrado le innumerevoli testimonianze non avevano denunciato nulla? Ovvero hanno colto l'occasione nel 1971 per colpire il buon Nixon che si era trovato con il cerino acceso in mano. La pronuncia poi della Corte Suprema lascia perplessi: ma chi controlla la Stampa, chi verifica le lobby finanziarie, economiche, massoniche, industriali, religiose che la condizionano e la Indirizzano? Cosa fece la stampa quando Bush si inventò le armi di distruzione di massa per scatenare una guerra che ha causato innumerevoli morti per cercare di conquistare qualche pozzo di petrolio. Non è un film di denuncia ma di propaganda, la libertà di stampa è un'altra cosa bellezza! Quanto alle donne in quegli anni giravano personaggi come Golda Meir e Indira Gandhi che mi sembrano di altra levatura dellla protagonista!
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vanessa zarastro
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venerdì 2 febbraio 2018
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giornalismo d’inchiesta
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Al film è stata fatta una notevole campagna pubblicitaria compresa la presenza dei due fantastici interpreti nella trasmissione televisiva di Fazio la domenica sera. Si è detto e letto molto quindi è difficile dire qualcosa di originale o di diverso.
Posso dire che vedendo il film mi è venuta un’immensa nostalgia di quelle epoche. Era facile capire dov’era il giusto e dove l’errore, chi erano i buoni e chi i cattivi. Le battaglie contro la guerra del Vietnam hanno unito generazioni di giovani pacifisti determinando, in tutto il pianeta, massicce manifestazioni, veglie e marce richiedenti giustizia e fine della guerra. Il mondo sembrava più semplice e il giornalismo (stampato e televisivo) aveva un ruolo fondamentale capace perfino di far cambiare gli eventi.
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Al film è stata fatta una notevole campagna pubblicitaria compresa la presenza dei due fantastici interpreti nella trasmissione televisiva di Fazio la domenica sera. Si è detto e letto molto quindi è difficile dire qualcosa di originale o di diverso.
Posso dire che vedendo il film mi è venuta un’immensa nostalgia di quelle epoche. Era facile capire dov’era il giusto e dove l’errore, chi erano i buoni e chi i cattivi. Le battaglie contro la guerra del Vietnam hanno unito generazioni di giovani pacifisti determinando, in tutto il pianeta, massicce manifestazioni, veglie e marce richiedenti giustizia e fine della guerra. Il mondo sembrava più semplice e il giornalismo (stampato e televisivo) aveva un ruolo fondamentale capace perfino di far cambiare gli eventi. Basti pensare al ruolo che ha avuto nella storia americana Edward R. Murrow che nel 1953 condusse dagli studi della CBS una feroce battaglia contro il Senatore Mc Carthy e contro le sue liste di prescrizione. Su Murrow George Clooney ha costruito il suo (forse) miglior film da regista Good Night, Good Luck del 2005, tutto in bianco e nero. Pensiamo inoltre a Walter Leland J. Cronkite, chiamato appunto da Murrow alla CBS, famoso e potente conduttore del telegiornale dal 1962 al 1981, ed editor di “CBS Evenig News”.
Il mondo americano è un mondo puritano, e non cattolico, dove la fiducia è la base di tutti i rapporti, ma dove non è perdonato il tradimento della fiducia stessa. I due temi che tratta il film The Post sono appunto il tradimento della fiducia di ben quattro presidenti (Dwight D. Eisenhower, John F. Kennedy, Lyndon B. Johnson, Richard Nixon) e il tema della libertà di stampa, libertà innanzi tutto nei confronti del Governo. Da sempre la stampa anglosassone è fedele a un principio di informazione - non conosce il giornalismo d’opinione tanto caro ai nostri giornali – e tutta una serie di norme deontologiche regola i rapporti con la veridicità dei dati, con il controllo delle fonti di informazione e così via. O almeno così era.
Nella seconda metà degli anni ’60 vengono alla luce i documenti del famoso rapporto Mc Namara, Segretario della Difesa degli Stati Uniti dal 1961 al 1968 durante la Guerra del Vietnam, sotto la presidenza Kennedy prima e Johnson poi. Il rapporto fu stampato parzialmente dal New York Times e dal Washington Post colpiti da un’ingiunzione della Corte Suprema. accusati entrambi di sovvertimento.
Il film The Post termina dove inizia Tutti gli uomini del Presidente di Alan J. Pakula del 1976 dove Bob Woodward e Carl Bernstein giovani cronisti del Washington Post, inizieranno un’inchiesta che porterà all’apertura della procedure di impeachment del 1974 nei confronti di Richard Nixon.
Costruito in modo perfetto dal gran mestiere di Steven Spielberg, il film The Post mostra le due recitazioni magistrali di Meryl Streep nei panni di Katharine Graham, proprietaria del giornale Washington Post e di Tom Hanks in Ben Bradlee, il suo direttore.
Trovo che il tema del giornalismo d’inchiesta sia ormai diventato un genere cinematografico, e senza togliere nulla a The Post non posso non menzionare come esempio recente, l’ottimo film Il caso Spotlight di Tom McCarthy del 2015, vincitore del premio Oscar come miglior film di due anni fa.
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weachilluminati
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sabato 10 novembre 2018
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la stampa è al servizio di chi e governat
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La Stampa é al servizio di chi é governato e non di chi governa: è una frase stupenda dov'è il conflitto fra il senso della giustizia e la profonda corruzione generata dalla gestione potere si stemperano.
Steven Spielberg con il film The post supera se stesso e ripropone con grande forza il valore di una scelta al di sopra di interessi particolari, nell'interesse di chi è governato.
La Stampa Libera è L'unico strumento a disposizione del Popolo per conoscere la verità degli eventi; oggi potremmo dire che altro canale di comunicazione della Libertà è inevitabilmente internet; tutto il resto è noia, La Piovra qui forse non può perché parliamo di comunicazione globale .
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La Stampa é al servizio di chi é governato e non di chi governa: è una frase stupenda dov'è il conflitto fra il senso della giustizia e la profonda corruzione generata dalla gestione potere si stemperano.
Steven Spielberg con il film The post supera se stesso e ripropone con grande forza il valore di una scelta al di sopra di interessi particolari, nell'interesse di chi è governato.
La Stampa Libera è L'unico strumento a disposizione del Popolo per conoscere la verità degli eventi; oggi potremmo dire che altro canale di comunicazione della Libertà è inevitabilmente internet; tutto il resto è noia, La Piovra qui forse non può perché parliamo di comunicazione globale .
Una stupenda Meryl Streep ,un sempre soprendente Tom Hanks sono il corollario per esprimere un capolavoro che non resterà privo di conseguenze.
Consiglio questo film a tutti coloro che vogliono avere coraggio di ascoltare e prendere decisioni scomode,comunque giusto .
Questo film vale 4 stelle secondo la valutazione di MyMovies;
Lo consiglio vivamente per risorgere un poco tutti dalla palude in cui siamo caduti.
buona visione
weachilluminati
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elgatoloco
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mercoledì 22 maggio 2019
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spielberg non sbaglia un colpo,...
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"The Post"(2017), di Steven Spielberg non è una specie di"All the President's Men"(1976, Alan J.Pakula), in primis perché narra una storia, se vogliamo la preistoria delle menzogne da Truman in poi, passando per Kennedy, Johnson, arrivando a Nixon, ma quello del "prima del Watergate", che invece è narrato nel film di Pakula citato-qui, invece, nell'ultima scena, troviamo il riferimento al Watergate, ma il film si chiude su ciò-inoltre , qui, si parla del"The Post", ossia del"The Washington Post"non del"New York Times"...Inoltre, il film, decisamente più attento alla ricostruzione storico.giornalistica, "snobba"quasi l'azione o meglio la omette in gran parte, ne fa, direi"tranquillamente"epoché, ritenendola comuqne narrata e da ritrovare altrove-il lavorio se pubblicare o meno(sarebbe stata comunque una mossa pericolosa, Nixon, qui , viene tranquillamente definito"A Son of a.
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"The Post"(2017), di Steven Spielberg non è una specie di"All the President's Men"(1976, Alan J.Pakula), in primis perché narra una storia, se vogliamo la preistoria delle menzogne da Truman in poi, passando per Kennedy, Johnson, arrivando a Nixon, ma quello del "prima del Watergate", che invece è narrato nel film di Pakula citato-qui, invece, nell'ultima scena, troviamo il riferimento al Watergate, ma il film si chiude su ciò-inoltre , qui, si parla del"The Post", ossia del"The Washington Post"non del"New York Times"...Inoltre, il film, decisamente più attento alla ricostruzione storico.giornalistica, "snobba"quasi l'azione o meglio la omette in gran parte, ne fa, direi"tranquillamente"epoché, ritenendola comuqne narrata e da ritrovare altrove-il lavorio se pubblicare o meno(sarebbe stata comunque una mossa pericolosa, Nixon, qui , viene tranquillamente definito"A Son of a...", senza mezzi termini, perifrasi o altro ancora.... Decisamente in medias res, insommma, qui Spielberg che non teme confronti ma neanche si vergogna di insistere sulle situazioni personali della proprietaria e del direttore del girnrale in questione che, attraverso la concorrenza con il"N.Y:Times"diviene un grande giornale nazionale, alla pari dell'altro. Primi , non primissimi piani, sequenze varie ma comunque incentrate sul rapporto interpersonale, come a dire che anche questi rapporti"fanno"la storia, ne sono comunque parte intrgrante. Meryl Streep e Tom Hanks(lontanissimo, ormai, dal "fantasma"di"Forrest Gump"di Zemeckis che gli avevano dato la notorietà defintiva, sono interpreti assolutamente adeguati, come peraltro gli altri(le altre). Spielberg si conferma un grandissimo del cinema attuale e di sempre. El Gato
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maramaldo
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lunedì 5 febbraio 2018
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la stampa è al servizio di chi è governato...
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Prima d'ora, non ci avevo mai pensato. Invece, ho sempre sentito dire che la Stampa costituisce il Quarto Potere. Ciò fa temere che il giornalismo possa mutuare talune pecche del potere tout court: nascondere fatti, manipolare notizie, ingannare la gente. Non so a favore di quali valori quei media del film misero in atto il nixonicidio e il tentato reaganicidio. Bisognerebbe chiederlo a Chomsky. Sconsiglio di rivolgersi a Spielberg. A questi lasciamo il merito di quest'avvincente lavoro in cui l'affabulazione si veste di una puntuale rievocazione. Oltre a condividere l'inno alla libertà non cercherei altri messaggi che richiederebbero il superamento di disinvolture dialettiche tipiche della lezione di Spielberg quali, in questo caso, quello di non interrogarsi sul come/quando/perchè tutti quei presidenti, buoni e meno buoni, s'impegolarono in un'avventura che appariva fallimentare in partenza.
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Prima d'ora, non ci avevo mai pensato. Invece, ho sempre sentito dire che la Stampa costituisce il Quarto Potere. Ciò fa temere che il giornalismo possa mutuare talune pecche del potere tout court: nascondere fatti, manipolare notizie, ingannare la gente. Non so a favore di quali valori quei media del film misero in atto il nixonicidio e il tentato reaganicidio. Bisognerebbe chiederlo a Chomsky. Sconsiglio di rivolgersi a Spielberg. A questi lasciamo il merito di quest'avvincente lavoro in cui l'affabulazione si veste di una puntuale rievocazione. Oltre a condividere l'inno alla libertà non cercherei altri messaggi che richiederebbero il superamento di disinvolture dialettiche tipiche della lezione di Spielberg quali, in questo caso, quello di non interrogarsi sul come/quando/perchè tutti quei presidenti, buoni e meno buoni, s'impegolarono in un'avventura che appariva fallimentare in partenza. Paradossalmente, fu Nixon a trarre l'America fuori dal pantano del Vietnam. Ma vogliamo insegnare la Storia a Spielberg? A lui non interessa il passato quanto il presente e il futuro...vilain de l'histoire.
The Post è un pretesto o, se preferite, una parabola. C'è un "uomo orribile". Lo si scorge nella penombra, dietro le vetrate della Casa Bianca, vomita minacce al telefono con la voce dell'orco dei cartoon, manca solo un ululato. Collegato a lui, anche se non c'entra col soggetto del film, l'accenno nel finale al Watergate. The Post, infatti, termina come comincia, un'intrusione notturna per carpire segreti. Spetta al pubblico avveduto distinguere. Non occorrono altri sforzi interpretativi. Cadenze concitate nella narrazione, suspense, abilità nel coinvolgimento emotivo tale da farti sentire come una tua vittoria quando le rotative si mettono in moto per stendere le pagine fatali.
Cast d'eccellenza, un Tom Hanks muscolare che non dimentica di aver già sventato il Watergate come Forrest Gump. Meryl Streep raggiunge la perfezione nel fare...se stessa. Anche fuori dello schermo ha una statura mondiale da quando ha preso le parti delle donne vittime di abusi. Vista la deferenza con cui è stata accolta alla nostra TV, qualcuno deve averlo fiutato: per caso, si sta pensando ad una "Meryl for President"?
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rumon
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giovedì 1 febbraio 2018
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la stampa al servizio dei governati
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"La stampa è al servizio di chi è governato, non di chi governa": così la Corte Suprema dichiarò nel verdetto in favore del New York Times e del Washington Post, che avevano pubblicato i dossier sull'inutile spargimento di sangue in Viet-Nam che, come dice un personaggio, "al 10% fu a favore dei vietnamiti del sud; al 20% per combattere i comunisti e al 70% perché gli Stati Uniti non potevano apparire sconfitti". "The Post" racconta un giornalismo con la schiena dritta, capace di arrivare ai ferri corti col potere in nome di ideali, come libertà, anche libertà di stampa, democrazia, coscienza del proprio dovere morale nello svolgimento della propria professione.
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"La stampa è al servizio di chi è governato, non di chi governa": così la Corte Suprema dichiarò nel verdetto in favore del New York Times e del Washington Post, che avevano pubblicato i dossier sull'inutile spargimento di sangue in Viet-Nam che, come dice un personaggio, "al 10% fu a favore dei vietnamiti del sud; al 20% per combattere i comunisti e al 70% perché gli Stati Uniti non potevano apparire sconfitti". "The Post" racconta un giornalismo con la schiena dritta, capace di arrivare ai ferri corti col potere in nome di ideali, come libertà, anche libertà di stampa, democrazia, coscienza del proprio dovere morale nello svolgimento della propria professione. Il film racconta anche, oltre che di un direttore come Ben Bradlee (Tom Hanks), appartenente a una razza di giornalisti e di direttori di giornale che oggi non è più così ampiamente rappresentata, di un'editrice, Katharine Graham, che deve superare remore, pregiudizi, ostacoli interiori che le rendono più difficile che a un uomo esercitare la sua professione di editore. Al momento della verità, Katharine Graham è cpace di dire "pubblicate", mettendo sul piatto, per il "Post", il massimo della posta. E vince. Meryl Streep e Tom Hanks hanno un posto prenotato in prima fila per la notte dei prossimi Oscar. Da non perdere.
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