Siamo su una piccola isola siciliana (sappiamo che si tratta di Linosa, ma la sua identità è stata volutamente tenuta nel vago), così piccola che non compare neanche su un comune mappamondo.
E’ il mare che ne determina ed influenza la vita con i suoi umori variabili, apportatore di vita e di morte, di cibo e disperazione, teatro di avventure mirabili o tragiche, mai uguale a se stesso, sempre capace di sorprendere, di stupire, di suscitare emozioni o angosce.
Il mare è stato fino a qualche tempo fa l’unico mezzo di sostentamento dell’isola, dove è ancora maggioranza la vecchia generazione di pescatori poco inclini a cambiare vita ed abitudini. Ma i figli, ed i figli dei figli, cominciano a mettere in dubbio le granitiche certezze dei loro padri, soprattutto davanti alle nuove prospettive che la modernità, in forma di torme di turisti affamati di sole e mare e portatori di facili ricchezze, lascia intravedere. Il richiamo delle sirene in costumi succinti ed olezzanti di olio di cocco è forte e rischia di disorientare e dividere la minuscola comunità.
Ma una imprevista ondata più travolgente di qualsiasi maroso incombe sull’isola, e ne sconvolge i già precari equilibri, costringendo gli abitanti a prendere posizione tra diverse opzioni ed a mettere in gioco le proprie coscienze. La migrazione dei disperati in fuga da forze distruttrici non segue le normali regole, assume spesso le forme impetuose del panico e della ricerca spasmodica di qualsiasi espediente utile alla sopravvivenza.
Davanti a tanta caotica energia umana che si riversa nel mare antistante o sulle spiagge della isola, deflagra l’immobilismo già tremulo della popolazione e si scatenano dinamiche che pongono in contrasto principi morali, spinte emotive e considerazioni opportunistiche.
La legge del mare (“Io non ho mai abbandonato nessuno tra le onde”) scritta sull’acqua, la legge dello Stato (il trattamento dei clandestini è compito delle Forze dell’ordine) scritta sui codici e sulle Gazzette Ufficiali, e la legge dello struzzo (divertitevi, che qui non c’è nessun ospite sgradito) scritta sui conti correnti bancari, si scontrano incrinando l’amalgama che ha legato e favorito nel tempo la convivenza dei residenti: il consenso basato sulla solidarietà e sulla tradizione.
Tutto questo si riflette nei rapporti di una famiglia composita del luogo (nonno pescatore, due figli di cui uno inghiottito dalla furia del mare e l’altro animatore turistico, la nuora vedova che vorrebbe evadere verso lidi migliori ed un nipote 20enne in affanno tra i triboli delle incertezze), che si disperde tra sentimenti diversi ed in tumultuoso divenire soprattutto quando il patriarca decide di salvare con la propria barca una migrante incinta ed il suo figlioletto. L’allargamento forzato della famiglia crea dapprima incomprensione e rigetto verso i nuovi innesti, ma la nascita del nuovo venuto riduce le distanze, ponendo le basi per un’alleanza tra madri e figli ospitanti ed ospitati, che consentirà ai più coraggiosi di cercare altrove nuove possibilità di autorealizzazione e nel contempo di trovare la propria terraferma interiore.
Terzo film di quella che potremmo chiamare la trilogia del mare di Crialese, dopo Respiro e Nuovomondo, Terraferma non delude le aspettative, non tanto per i temi trattati quanto per l’angolazione da cui viene visto il rapporto tra popolazione e migrazione. I barconi fanno una fugace apparizione, i volti dei migranti si intravedono nella loquace sofferenza dei loro volti, l’assalto disperato dei naufraghi alla barca del giovane Filippo, avviene di notte e lo sguardo è più concentrato sulla reazione inconsulta e violenta del giovane che non sulle mani e sui corpi dei naufraghi. Insomma il dramma si intuisce in tutta la sua portata dalle dinamiche psicologiche e comportamentali dei familiari, da alcune magistrali sequenze sottomarine (in cui appaiono inerti sul fondo diari e libri aperti, scarpe ed altri oggetti personali che trasudano morte), da assimilazioni paradossali (il barcone gremito di bagnanti festanti al ritmo di musica spensierata da lontano assomiglia tanto a quello di una massa di disperati che agita le braccia in cerca di aiuto). Le immagini, particolarmente quelle del mare, parlano come e più dei dialoghi, come peraltro in altri film del regista.
In fondo il viaggio dei transfughi dall’isoletta sicula verso la speranza riprende lo schema contestuale del Nuovomondo, ma cambiano le dimensioni: qui si abbandona la Sicilia verso enormi territori come l’America su un transatlantico, lì la fuga inizia da una piccola isola assente dai mappamondi per terminare sulla penisola italica, con l’utilizzo di una modesta barca da pescatori. Ma resta il mare il protagonista delle peregrinazioni fisiche ed emozionali dei personaggi, il testimone delle loro avventure, tragiche o a lieto fine che siano, il portatore dell’imprevedibilità degli esiti delle grandi azioni, lo spettatore muto e gelido dei tentativi anche estremi di salvare o dare un senso ad una vita irrisolta.
La padronanza di un cineasta ancora giovane come Crialese nel creare emozioni attraverso immagini spesso poetiche e sempre accuratissime ed evocative è sorprendente; i giochi di luce (basti pensare al dialogo finale tra madre etiope e la sua benefattrice, tutto imperniato sull’alternarsi di luci, ombre e penombre), la capacità di proporre immagini che creano altre immagini (la barca che nel finale fende le onde e solleva due scie di spuma ai lati, quasi fossero due braccia che cercano nuotando di agevolare la velocità della fuga) dànno un prezioso valore aggiunto ad una prova che, se non raggiunge i vertici del precedente film, contribuisce a nobilitare la presenza a Venezia del cinema italiano, ed a richiamare in modo intelligente ed originale –al di là di facili polemiche antirazziste- l’attenzione pubblica, comprensibilmente distratta da altri problemi, su una biblica tragedia umana tutt’altro che risolta.
Claudio
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