King Kong |
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Un film di Peter Jackson.
Con Naomi Watts, Jack Black, Adrien Brody, Andy Serkis, Jamie Bell.
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Azione,
Ratings: Kids+13,
durata 187 min.
- Nuova Zelanda, USA, Germania 2005.
uscita venerdì 16 dicembre 2005.
MYMONETRO
King Kong
valutazione media:
3,90
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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IL CANTO DEL CIGNOdi a.l.Feedback: 0 |
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martedì 3 gennaio 2006 | ||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
In “King Kong” Jackson facendo rivivere sugli schermi il classico omonimo del 1933 di Cooper e Schaelsack rielabora in chiave postmoderna il mito dell’incontro fra la creatura angelica e il bestione selvaggio. Il confronto è forse deludente per lo spettatore, ma solo se prende troppo alla lettera il riferimento al romanzo di Conrad “Cuore di tenebra” e cerca il mistero nella metaforica giungla di un impenetrabile continente umano: ovvio non trovarlo nell’esuberanza spettacolare della parte isolana o nel patetismo esibito di quella newyorkese e restarne delusi. Il film ha però un’anima, per altro neanche troppo nascosta, ed è la nostalgia per un universo immaginario perduto e il rimpianto per un mondo fantastico ancora vergine e schietto, dove la capacità di suggestione, il titanismo dei sentimenti, il gusto per la bellezza non sono atrofizzati dalle sofisticherie della civiltà normalizzatrice: “King Kong” è precipitato giù dall’Empire State Building quasi cento anni fa, e la sua mesta resurrezione si risolve, consapevolmente, in una ricostruzione filologica ineccepibile ma anacronistica e artificiosa, realizzabile solo grazie alle meraviglie della tecnologia. La coscienza dell’irrecuperabile lambisce ogni sequenza di un ‘opera ipertrofica e monumentale per compensazione e lirica nel tono e nei presupposti: la nostalgia di un’età dell’oro mitica, in cui mostri terrificanti ed eroi generosi popolavano idilliache vallate, il rifiuto di un presente prosastico, un racconto epico, magniloquente e rudimentale nell’ostentare ideali e valori, recalcitrante alla stringatezza contemporanea, accomunano “King Kong” alla trilogia de “Il signore degli anelli”. Solo chi ha conservato in sé cuore di fanciullo è in grado di compiere il viaggio di ritorno verso l’innocente splendore delle ere preistoriche, salire sulla cima della montagna o della metropoli, e ammirare l’orizzonte puro. Il piccolo Hobbit, Frodo, salvava dal male l’umanità dei tempi remoti, lo scimmione, “ottava meraviglia del mondo” e la giovane artista vivono un’epoca in cui demoni e maghi sono sepolti da secoli, ma danzano insieme sul laghetto ghiacciato del Central Park, illuminati dalla luna, contemplano dall’alto il crepuscolo, esclamano “bellissimo”, definendo la loro prodigiosa metamorfosi da creature terrestri a esseri celestiali, dotati di ali con cui scalare i grattacieli per vedere dall’alto. Ed è il privilegio di un’anima “sublime” a unirli in una passione ideale più totalizzante della convenzionale attrazione amorosa, relegata significativamente ai margini della vicenda nella love story fra la fanciulla e il drammaturgo. E non c’è spazio umano adatto a contenere la loro natura poetica: essi sopravvivranno nel ricordo di un cinema utopico, che va a cercarsi protagonisti e set in un’isola posta al di fuori delle rotte, sommersa dalla nebbie, raggiungibile solo per disperazione e per caso e mai più ritrovabile. “King Kong” finisce così con l’essere una solenne sconfessione della Settima arte nel rapporto speculare fra gli occhi espressivi del gorilla e quelli da satiro del suo carceriere, il regista Carl Denham. L’ossessione per il cinema, incarnatosi in uno dei sui numi tutelari Orson Welles, miete vittime, crea feticci illusori, costruisce per loro gabbie luccicante, ammirabili pagando il biglietto d’ingresso, e li distrugge. “E’ la bella che uccide la bestia” dice Carl alla fine, commemorando cosi il suo stesso canto del cigno.
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