Il ponte di San Luis Rey

   
   
   

lento ma interessante Valutazione 3 stelle su cinque

di ANDREA GIOSTRA


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martedì 11 dicembre 2012

Un cast di attori fantastici. Una ardimentosa storia tratta dal romanzo omonimo pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1927 e con il quale l’autore, Thornton Wilder, nel 1928 vinse il prestigioso premio Pulizer.
Storia ardimentosa perché il romanzo di Wilder, ambientato nel Perù cattolico del 1714, ha una grande ambizione, quella di provare a rispondere ad una ancestrale domanda che l’uomo si pone da millenni e alla quale non ha mai trovato una risposta convincente: perché mai bambini, donne e uomini buoni e incolpevoli debbano essere colpiti da catastrofi e da calamità? Perché mai eventi negativi e imprevedibili colpiscono sempre le persone innocenti?
La sfida di Wilder è proprio questa. E Mary McGuchian, che ha curato la regia e la sceneggiatura nella versione del 2004, raccoglie questa sfida e ne fa un film che purtroppo non riesce ad avere l’impatto emotivo sperato e non riesce a coinvolgere lo spettatore trasmettendo lo stesso pathos del romanzo. E’ vero, d’altra parte, che è estremamente difficile tradurre in un ottimo film un ottimo romanzo. In questo caso, questa regola non scritta, viene confermata. Resta però l’apprezzabile coraggio di McGuchian di essersi cimentata in un’impresa ardua e importante.
La recitazione dei protagonisti vale però la pena di vedere il film. E questo è un bel risultato.
“La consapevolezza che non sarò mai riamata e troppo dura da sopportare” dice all’amico ufficiale la bravissima Kathy Bates, che dedicava tutte le sue giornate solo all’affetto della figlia trasferitasi alla corte del Re di Spagna e della quale, a causa di un infuocato diverbio, aveva perso irrimediabilmente il rispetto e l’amore. E l’amico le replica senza esitazione: “Cara Marchesa, siamo tutti caduti nella tirannia di amare gli altri per amore di noi stessi”.
Il narratore delle storie, il frate Gabriel Byrne, cerca di mettere in relazione le vite delle cinque vittime, e trova un solo filo conduttore: la loro vita si era distinta per l’amore profondo e disinteressato donato al prossimo.
Questo è il senso delle loro storie, ma questo è un senso che né l’influente arcivescovo Robert De Niro né il potente vice Re F. Murray Abraham possono tollerare. L’atto di rinnegamento è lucido e razionale, e la pena inflitta cinica ed esemplare perché mai più si possa dire che solo l’amore disinteressato per il prossimo conduce a Dio. La condanna deve essere eseguita prima del calar del sole e senza esitazione alcuna: il pubblico rogo per frate Byrne e i suoi libri bruciati sotto i suoi stessi occhi adesso sconfitti e impotenti. Occhi che tra le fiamme poderose rimangono ancora pieni di fede, di chi, malgrado la sorte avversa subita, mantiene salda la fede nell’amore terreno così come nell’amore divino.

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