Il ritorno

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Un film di Andrey Zvyagintsev. Con Vladimir Garin, Ivan Dobronravov, Konstantin Lavronenko, Nataliya Vdovina, Galina Popova.
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Titolo originale Vozvraschenye. Drammatico, durata 105 min. - Russia 2003. MYMONETRO Il ritorno * * * - - valutazione media: 3,47 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

LA LINEA D' OMBRA Valutazione 4 stelle su cinque

di Dunedin


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mercoledì 4 gennaio 2006

Buttarsi nell’acqua gelata da quell’altezza fa paura. Ivan ha paura. Inutile che il fratello maggiore, Andej, lo sproni. Per Ivan non é ancora tempo di uscire dal mondo ovattato e protettivo dell’infanzia, non é preparato a quel “tuffo” che cambierà la sua vita di bambino a quella di uomo. Il padre, figura misteriosa e misteriosamente riapparsa dal nulla, li aspetta a casa. Subito vuole che ai figli venga versato il vino. Subito dà il segnale che li vuole adulti. Andrej é pronto, o vuole sentirsi pronto, a questo passo. Ivan, no. Il viaggio verso una meta sconosciuta (un’isola deserta) in cui il padre li accompagna, li vede ora complici ora nemici. Complici e uniti nel tenere un diario di viaggio, nello scattare foto, nel divertirsi a pescare, nel difendersi a vicenda da quel cerbero sconosciuto che ha dato loro la vita. Divisi e litigiosi sull’atteggiamento da tenere verso “papà”, che in Andrej é di morbida attesa, in Ivan di deciso rifiuto. L’uomo alleva e sevizia i figli, é sadico e poi protettivo, insegna loro mille cose ma altrettante pretende che già sappiano. L’educazione é violenza. Quando l’ineluttabile li sorprende, i ragazzi sapranno far tesoro dei suoi insegnamenti, sia sul piano pratico che su quello morale. Di quel viaggio iniziatico resteranno un album di foto e l’infanzia perduta. “Il ritorno” é un film di liquidi (il lago, il vino, la pioggia che inzuppa le acerbe figure dei protagonisti) in cui l’occhio perdutamente si annega, in cui la mente si smarrisce nell’affannosa, quanto infeconda, ricerca di rubarne l’anima profonda. Solo due sono i personaggi: Andej e Ivan che hanno un nome, una personalità definita e leggibile. Il padre, onnipresente, l’evanescente madre, la nonna, a mala pena citata, non sono che “ruoli”. Ma sono “ruoli malamente giocati”, per difetto o per eccesso. Così accade che i due ragazzi crescano da soli, nell’accecante luce di una campagna abbandonata, nel buio pauroso della notte, nel silenzio umido della tenda, nell’insopportabile profluvio di pioggia che annega i loro sforzi di adeguarsi alla vita. La macchina li scruta sfocando il viso ora dell’uno ora dell’altro; usando i loro volti come anello di congiunzione dell’ininterrotto dialogo in cui si interrogano a vicenda sul senso delle cose. Alcuni critici si sono domandati se il giovane regista de “Il ritorno”, Andej Zvyagintsev, sia o non sia il nuovo Tarkovskj. Personalmente lo ritengo un quesito poco sensato e un tantino insultante. Se sia o non sia un genio come Tarkovskj mi sembra problema di piccolo momento. Certo é ancorato alla tradizione iconografica del cinema russo che comporta squarci visionari, citazioni pittoriche e che trasuda religiosità da tutti i pori. Ma Zvyagintsev ha personalità da vendere e la sublime modestia di confezionare un’opera-prima di tutto rispetto, dal taglio quasi minimalista, senza eccessi, sbrodolature, autocompiacimenti. Alcuni critici si sono domandati se “Il ritorno” abbia vinto giustamente un ambìto e prestigioso premio come il Leone d’Oro. Si sono chiesti se la storia piena di tenero pathos dei bambini vittimizzati fosse o non fosse una trovata furbetta, per non dir di peggio, impalcata ad arte per commuovere la giuria. Credo che un’opera vada vista e valutata a prescindere da qualsivoglia supposizione o supponenza. Ho letto critiche che hanno dato a “Il ritorno” interpretazioni psicoanalitiche, che parlavano di richiami al teatro greco o alla tragedia elisabettiana. Guardatelo e basta. Beatevi della sua complessa semplicità. Non squartatelo con avide indagini. Ascoltate la voce che parla della linea d’ombra che separa l’infanzia dalla giovinezza.

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