Fa' la cosa giusta

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Un film di Spike Lee. Con Danny Aiello, Ruby Dee, Ossie Davis, Spike Lee, Giancarlo Esposito.
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Titolo originale Do the Right Thing. Drammatico, durata 113 min. - USA 1989. MYMONETRO Fa' la cosa giusta * * * - - valutazione media: 3,23 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Irene Bignardi

La Repubblica

Accattivante e scomodo, divertente e tragico, ambizioso e popolare, politico e spettacolare, Fa’ la cosa giusta fu escluso dal palmarès di Cannes da una giuria troppo timorosa di prendere posizioni. Come cosa giusta, sceglie di far piazza pulita, nella sostanza e nelle forme, di tutto il cinema conciliante degli zii Tom e dei loro omologhi bianchi tipo Alan Parker, per offrire del grande cinema politico di colore (in tutti i sensi, compreso quello dell’invenzione)?
Giustamente il film di Spike Lee ha riscosso un notevole successo negli Stati Uniti, dove ha altrettanto giustamente suscitato grandi discussioni. Perché non è un film a tesi. Ma è un film a due tesi, contrapposte. Perfetto per far continuare a pensare, per un po’, dopo che si è usciti dal cinema. Posto che pensare sia la cosa giusta...
Spike Lee, poco più che trentenne, nero, nato nel cuore nero dell’America, ad Atlanta, con il suo primo lungometraggio, Lola Darling, aveva parlato con la levità e l’ironia della commedia, tanto da meritarsi un paragone con Woody Allen, di negritudine giovanile e borghese, nel quadro dell’educazione sentimentale della sua protagonista. Con Fa’ la cosa giusta, che ha anche scritto e prodotto, prende invece di petto l’eternamente irrisolta questione dell’intolleranza razziale. Ancora una volta facendo finta di fare della commedia. Ma con qualche complicazione.
Siamo a New York, anzi a Brooklyn, nel ghetto di Bedford Stuyvesant, nella giornata più calda dell’anno. La Grande Mela è al forno, titola “The Village Voice”, mentre il disc-jockey della locale stazione radio, che con qualche ironia si chiama We Love (noi amiamo), sveglia gli abitanti del quartiere con la notizia che probabilmente l’acqua sarà razionata. E intanto li investe con una bordata di musica che, fragorosa come piace da quelle parti, non ci abbandonerà per tutto il film (una parte la firma il padre di Spike Lee, Bill).
Nell’ideale spazio teatrale rappresentato da un incrocio di Stuyvesant Avenue, una sorta di campiello metropolitano dove c’è di tutto meno la droga (per una deliberata scelta del regista contro l’automatica identificazione tra neri e, nel caso specifico, crack), Spike Lee fa entrare in scena uno dopo l’altro i personaggi di una comunità composita, povera e rumorosa. L’italoamericano Sai (Danny Aiello), che ogni mattina, con l’aiuto di due figlioloni rissosi e litigiosi, apre la sua pizzeria, dove gli abitanti della zona si sono nutriti per almeno vent’anni. Il nero Mookie (è lo stesso Spike Lee, con un bizzarro taglio di capelli a due piani), tendenzialmente nullafacente e pigro, che va in giro a consegnare le sue pizze travestito con un camicione bianco a risvolti rossi e verdi (viva l’Italia...). Il vecchio e bonario ubriacone, l’anima buona e saggia del quartiere, Bugging Out, che si considera un attivista destinato a risvegliare la coscienza politica dei suoi fratelli e non trova di meglio che rompere le scatole a Sal perché sul muro della pizzeria pendono le fotografie dei grandi italoamericani: e lui vorrebbe vederci anche qualcuno di colore.
Nel gran caldo della giornata, restituito dalle tonalità arancio della bella fotografia di Ernest Dickerson, Spike Lee, con uno stile personalissimo e brillante di cinema globale, dove si mescolano immagini e musica, balletto e sceneggiata, muove i suoi personaggi in un gioco a incastri di piccoli eventi e di piccoli litigi senza importanza verso un imprevedibile finale, preannunciato solo dal fatto che, nel mondo di Stuyvesant Avenue, si grida sempre, in privato e in pubblico: a partire dai litigi tra Mookie e la sua ragazza (da cui ha avuto un bambino che lei ha dispettosamente battezzato con il nome bianco di Hector) per finire alla continua schermaglia tra i figli del pizzaiolo.
Un po’ si litiga per il caldo. Un po’ perché le tensioni sono incancellabili, perché le provocazioni sono all’ordine del giorno, perché la razza nera - lasciamo la responsabilità dell’affermazione al quadro che traccia Spike Lee – è buona e simpatica ma litigiosa e bugiarda. E perché i pregiudizi si reinventano ogni giorno, negri contro bianchi, portoricani contro coreani, ciascuno contro tutti, in una confusa ma totale guerra di poveri, fino alla sconvolgente esplosione finale.
Spike Lee si è ispirato a un episodio tristemente famoso della storia di New York, la tragedia di Howard Brach, avvenuta nel dicembre 1986, quando un nero è stato attaccato e ucciso da una banda di adolescenti. Ma, da grande uomo di spettacolo, pur mettendo in mano allo spettatore tutti i dati di una situazione tragica, riesce ugualmente a coglierlo di sorpresa con la drammaticità della conclusione.
Tra i due opposti messaggi ideali rappresentati da Martin Luther King e da Malcolm X, di cui per tutto il film il povero demente Spiley cerca di vendere le immagini (alla fine campeggeranno sulla parete della pizzeria devastata al posto dei sorridenti ritratti hollywoodiani degli italoamericani), sappiamo che la simpatia di Spike Lee va al secondo. La violenza razzista può essere vinta solo dall’intelligenza, afferma il regista parafrasando Malcolm X. Ma se ti trovi di fronte gente non intelligente, l’unico modo per rispondere alla violenza è la violenza.
Con intelligente ambiguità autocritica, Spike Lee sceglie come detonatori della violenza, accanto all’indifferenza e alla violenza del potere bianco costituito, il pressappochismo politico dei suoi simili: a scatenare la follia collettiva è lo stesso Mookie-Spike Lee, con un gesto di ribellione contro quel brav’uomo che è il vecchio italoamericano Sal. Non ci sono colpe, se non in un odio e in un’intolleranza profonda quanto reciproca, coltivata dalla povertà. E la grande patria di schiavi fuggiaschi non è riuscita nemmeno a fare in modo che gli ex schiavi si accettino fra loro con intelligenza.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996

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