Irene Bignardi
La Repubblica
Del rapporto tra l'Est indo-pakistano, islamico, induista dell'antico Raj britannico e l'Ovest della moderna Gran Bretagna, si è molto raccontato nel recente cinema inglese, tanto che sarebbe facilissimo fare un minifestival sul tema, partendo dall'ormai classico My beautiful laundrette, per continuare con Il giardino indiano, London kills me, Mio figlio il fanatico, che in varie versioni - poetica, femminile, punk, ideologica - disegnano la mappa del complicato intreccio tra gli antichi dominati e i non più dominatori. E Om Puri, con il suo faccione butterato che sa essere insieme così bonario e così feroce, incarna benissimo le due anime di questo problema. Da una parte, in Mio figlio il fanatico, era il papà ottimamente integrato nell'Inghilterra di oggi che si trova a far fronte con un figlio integralista. In East is East, grande successo di Cannes 1999, passa dall'altra parte, ed è un vecchio musulmano che, se pur ha sposato una britannica dai rossi capelli e ne ha avuto sette figli, vorrebbe tuttavia che i medesimi si adeguassero allo stile e alle regole della lontana patria pakistana. Il film, diretto con spirito di servizio da Damien O' Donnell, è tratto da una commedia fortemente autobiografica del pakistano Ayub Khan-Din messa in scena per la prima volta al Royal Court Theatre nel 1997. E Khan- Din, a cui si deve la sceneggiatura, fa il possibile, fin dalla prima, esilarante scena di una processione, per aprire lo spazio e la situazione teatrale, che resta però fortemente riconoscibile. Il palcoscenico principale è una casa a schiera in un quartiere popolare di Salford, nel Lancashire degli anni 70, quando l'integrazione era agli esordi, imperversava il fascista Enoch Powell e l'autore aveva più o meno l'età che ha il più piccolo dei figli della famiglia Khan. Ecco dunque il papà, gestore di una friggitoria di fish and chips (Om Puri), la mamma rossocrinita che gli vuole molto bene e, anzi, fa ancora lietamente l'amore con lui dopo tanti anni e sette figli (la bravissima Linda Bassett), e i figli con molto desiderio di essere, semplicemente, quello che sono per nascita e per metà: britannici. Il papà li costringe invece ad essere "paki", vorrebbe che sposassero chi dice lui (ma uno scappa, per così dire, davanti all'altare e ce lo ritroveremo disegnatore di cappelli e gay felice a Londra), che la ragazza indossi il saree, che vadano alla moschea e studino l'arabo. Tutte cose a cui i giovani Khan si ribellano, in una commedia che svaria dal dramma etnico-familiare alle baruffe chiozzotte - nel senso che sono osservate e commentate da un partecipe coro di vicini. Si ride, spesso e volentieri, in un film che è simpatico, rumoroso e, in fondo, gentile. Ma, a pensarci bene, si dovrebbe piangere: sono questi pregiudizi, l'incapacità di accettare la diversità e l'integrazione, le volontà coartate, i rituali imposti con la durezza, i dogmatismi, le violenze, domestiche e non, esercitate in nome della religione, della tradizione e della famiglia a porre le basi degli orrori di cui siamo stati testimoni in questi anni. Quella di Salford e di Khan, vista da oggi, sembra l'età dell'innocenza.
Da La Repubblica, 17 dicembre 1999
di Irene Bignardi, 17 dicembre 1999