Quanti sguardi tristi in questo film, opera seconda dell’inglese Steve McQueen, classe ’69, videoartista e scultore approdato al cinema nel 2008 con il film rivelazione Hunger.
Tanti personaggi smarriti per un film che è molto più angosciante che “erotico” (nonostante l’ingiustificato clamore suscitato dalle scene più esplicite).
Shame è la fotografia sobria e minimale della vita solitaria di un uomo che potrebbe avere tutto e che invece non ha niente. Distante dalle abili strategie di conquista messe in atto da Valmont o dall’ironia pervasiva del Bertrand Morane de L’uomo che amava le donne, Brandon Sullivan (un intenso Michael Fassbender) non ama né seduce, chiuso com’è in quella sua prigione fatta di una serie infinita quanto insoddisfacente di rapporti sessuali, orgasmi, chat erotiche e pornografia di ogni genere, alla ricerca compulsiva di quell’attimo di oblio che gli offre la “piccola morte”. Niente amici, niente gioia, nessun rapporto stabile e la desolante incapacità di averne. Un appartamento da single curato ma asettico, un lavoro descritto poco più che come spazio fisico, pochi momenti di apparente normalità che mal celano il dramma esistenziale di quest’uomo.
Fanno capolino la sorella Sissy (Carey Mulligan), anima fragile e bisognosa d’amore, e Marianne (Nicole Beharie) la bella collega che offre a Brandon, senza successo, l’occasione di una vita e un rapporto normali.
Chissà in quale passato affonda le origini tanta sofferenza, il male di vivere dei fratelli Sullivan, che come non manca di sottolineare Sissy “non sono cattivi, vengono solo da un brutto posto”, un posto che non ci è dato conoscere e di cui possiamo solamente constatare gli effetti.
Nessuna via di fuga. Neanche il bellissimo carrello con cui seguiamo Brandon nella sua affannosa e cieca corsa notturna sulle note circolari di J.S. Bach, in una NY fredda e indifferente, riesce a stemperare la rabbia, lasciandoci senza fiato in una sequenza che sta, nella storia del cinema, al lato opposto dell’ultima inquadratura de I Quattrocento colpi in cui Truffaut accompagna il suo Antoin Doinel verso la libertà. Analogamente la struggente versione di “New York, New York” cantata da Sissy in un club, sovvertendo completamente l’ottimismo del sogno americano, è antitetica alla carica di esplosiva vitalità trasmessa dall’interpretazione di Liza Minelli nell’omonimo film di Scorsese.
McQueen realizza un’opera raffinata e calibrata in cui si respira l’atmosfera opprimente dei romanzi di Bret Easton Ellis (più che in altre pellicole direttamente tratte dai suoi romanzi). A sorreggerne l’abile regia, la fotografia livida curata da Sean Bobbitt e il lavoro di Harry Escott, che ha realizzato per questo film una colonna sonora splendida. Sia la scelta dei brani musicali che la composizione di un tema che mette i brividi, fanno crescere un’ossessione che ci fa scivolare sempre più giù fino all’ultimo disperato amplesso a tre in cui il volto di Brandon si trasforma in una tragica maschera di dolore.
Impossibile non riscontrare una continuità stilistica e tematica con il precedente film Hunger, in cui il protagonista Bobby Sands, militante dell’IRA morto nel carcere di Maze in seguito allo sciopero della fame proclamato per riottenere lo status di prigioniero politico, utilizzava il proprio corpo come strumento per affermare la “libertà dell’anima”. L’esatto contrario del prestante Brandon, che pur essendo libero nel paese delle libertà, trova nel suo corpo la propria prigione.
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albet
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sabato 11 febbraio 2012
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corto-circuito
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Ottima recensione: Shame è un film sulla fatica di vivere. Le aspettative che si sono create per le scene considerate scandalose sono beffardamente il corollario alla tesi del film: l'angoscia del vuoto esistenziale affogata nella sessualità; un vero corto-circuito. Il regista nasce come artista e si vede perchè usa l'immagine e la narrazione come strumenti di disvelamento e rappresentazione concettuale.
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(di beatrice fiorentino)
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misesjunior
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mercoledì 4 luglio 2012
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conformismo politically correct
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"Scopare fa male se non ci sono sentimenti" è la litania di quelli che scopano poco e male: psicologi e moralisti di tutti i generi. "Dipendenza dal sesso" ce l'hanno tutti, dal momento che tutti i sani desiderano, ma anche quelli che si reprimono e si nascondono dietro i belli sentimenti... perché in fondo hanno aura del sesso. Questo è un film che non c'entra il bersaglio e crede di averlo trovato nel sesso, trovando che chi ci dà dentro di più degli altri a prescindere... è "dipendente", vuoto, ecc.. Quando non si riesce a sfuggire al moralismo e ai pregiudizi il problemi magari si vedono, ma si fraintendono e si incorre in riduzionismo prettamente ideologici.
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(di sorella luna)
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sorella luna
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lunedì 28 gennaio 2013
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brava!
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Scrivi molto bene e la tua è la recensione che avrei voluto scrivere io, tanto perfetta ed equilibrata, non hai tralasciato alcun aspetto e hai citato sempre a proposito!
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(di beatrice fiorentino)
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