Una tragedia moderna dai toni del noir diurno in cui emergono gli elementi dell'horror psicologico. Al Noir in Festival.
di Anna Maria Pasetti
Nella lingua italiana, ferina è un aggettivo che richiama la natura selvaggia, bestiale, feroce delle belve. Solo in rari e poetici casi del passato letterario e mitologico diviene sostantivo, quale fiera assetata di incontrollabile violenza. Andrea Corsini la adotta al plurale femminile quale titolo del suo esordio nel lungometraggio sviluppato dall’omonimo corto del 2019. Horror “materno” e umanista per contenuto, linguaggio e atmosfere, Ferine affronta in primis il multiforme tema della maternità negata e surrogata avvalendosi della reazione ancestrale del mammifero femminile quando viene privato della prole. Il personaggio di Irene ne è emblematico: impossibilitata ad avere figli naturali, ricorre a un’illegale transazione con un’ambigua faccendiera per far propria una neonata partorita da una donna indigente. Ma un incidente stradale cambia il suo destino, e i suoi “appetiti”. Senza entrare, naturalmente, nelle pieghe sinottiche di una trama che non deve né può essere svelata, Ferine è un testo dal gesto metamorfico della sua protagonista che non si arrende alla perdita figliale.
Ciò che Corsini mette in scena per il suo pubblico, dunque, altro non è che l’archetipo materno di protezione ad ogni costo. Irene è “tutte le madri” chiamate a sopravvivere contro tutto e contro tutti. Se formalmente il modello è l'horror classico italiano, specie quello "bestiale" e femminile alla Dario Argento, non esente da momenti splatter (e qui di cannibalismo), quello messo in racconto da Ferine è un cinema che attrae e respinge contemporaneamente così come non può prescindere dal binomio della "bella e la bestia".