
Il regista Joshua Oppenheimer ha scelto di non preparare allo spettatore un piatto “facile”. Il film instilla disagio, inquietudine, sgomento. Dal 3 luglio al cinema.
di Giovanni Bogani
Tutti nel bunker, mentre il mondo fuori – invisibile – ha vissuto la catastrofe. Un’immagine del futuro: o forse, a pensarci bene, un’immagine del presente.
Un’umanità rinchiusa, che vive sottoterra, schiacciata da una Apocalisse già avvenuta, all’esterno, probabilmente per il disastro climatico. Alle pareti della dimora, impeccabilmente borghese, opere d’arte dal valore inestimabile: “La ballerina” di Renoir, “La donna con l’ombrello” di Monet. Sembra che tutto sia lussuoso, e in definitiva normale: ma niente è normale.
È il fuori che manca. Non c’è un cielo, non c’è un esterno E manca anche il resto dell’umanità. Non c’è bisogno neanche dei social: perché l’unico nucleo esistente, l’unico “world wide web” è una famiglia. Non ci sono altre persone da osservare, giudicare, criticare, non ci sono altri volti da scrollare.
Instilla disagio, inquietudine, sgomento The End di Joshua Oppenheimer, autore di apprezzati documentari sui massacri in Indonesia, L'atto di uccidere e The Look of Silence. E disagio, inquietudine e sgomento fanno ancora più rumore perché non si alza mai la voce.
Nel mondo disegnato da Oppenheimer l’unico sentimento sembra quello dell’attesa. Non ci sono cose da fare, obiettivi da perseguire. Per questo si canta tanto: si canta come a cristallizzare un sentimento, come a definire uno stato d’animo. The End è un film statico, non dinamico. Le canzoni, che presidiano gran parte del film, non prevedono quasi mai coreografie. Sono come monologhi o dialoghi in musica.
Non si esce mai, non si esce mai. Si rimane dentro enormi e inquietanti grotte, tunnel sotterranei. Non si capisce come si sia ridotto il mondo, là fuori. Si vive rintanati nel proprio passato, nei propri ricordi. Michael Shannon lavora a un mémoir che nessuno leggerà, Tilda Swinton ricorda il suo passato da ballerina al Bolshoj; George MacKay è il figlio nato nel bunker, che non sa nulla del passato, di come si viveva una volta.
A pensarci, è una perfetta metafora dell’Occidente, chiuso nel suo passato, incapace di prefigurare modi decenti di stare al mondo, incartapecorito negli stilemi di una vita borghese, in un guscio al di fuori del quale c’è l’ignoto, all’interno del quale non si vuole far entrare nessuno. È l’immagine di una borghesia arroccata, che difende il proprio privilegio – il bunker è ampio, c’è una piscina, ci sono salotti, quadri di prestigio – a costo di privarsi della linfa vitale, dello scambio con l’umanità.
Ha scelto, Oppenheimer. Ha scelto, per esempio, di non preparare allo spettatore un piatto “facile”, di non offrirgli suspense a buon mercato. Non ci sono minacce evidenti, non ci sono momenti di attesa spasmodica. C’è una sorta di attesa globale, come se si attendesse un’Apocalisse, ma tutto rimane nell’aria.
Rimangono nell’aria anche le molte canzoni che innervano il film. Le canzoni sembrano essere una riflessione su ciò che vediamo, ma non trascinano la storia, non spingono la dinamica, non vogliono essere coinvolgenti, esplosive, romantiche. E forse c’entra qualcosa anche il fatto che nessuno degli attori sia un cantante. Tilda Swinton canta note difficili, melodie poco orecchiabili, fa un lavoro enorme, attraversando campi minati di note non banali. Ma rischia a volte che la sua voce si faccia stridula, da uccellino in gabbia. E soprattutto, manca in ogni canzone il momento trascinante, coinvolgente, struggente, esaltante. È come se fosse un musical che non si vuole distendere, che non vuole uscire nemmeno lui. Come i suoi protagonisti.
È un ultimo giorno della vita sulla Terra protratto per sempre. Come sembrano questi nostri giorni, fra un’Apocalisse prossima ventura di cui seguiamo gli sviluppi, senza credere fino in fondo che la tragedia annunciata possa davvero toccarci. Sospesi fra la sensazione di una fine prossima, e il cullarsi nell’idea che il tempo possa rimanere immobile. E che noi, l’Occidente, con i nostri libri, i nostri salotti, si possa vivere, ancora, in una bolla al sicuro, magari senza scintille di vita.
Sette personaggi sopravvivono, il resto del mondo muore. Se c’è una metafora dell’Occidente, è questa.