
Il film del regista rumeno è da vedere come un’allegoria che porta ancora i segni profondi del contesto socio-politico del paese. Al cinema.
di Tommaso Tocci
Corneliu Porumboiu, maestro delle perplessità linguistiche e comunicative, raggiunge nuove vette di stranezza con il suo ultimo thriller-noir europeo La Gomera, con cui si lascia alle spalle la patria rumena e come il suo protagonista, l’ispettore Cristi, cerca di ricomporre il senso del linguaggio dalle Canarie a Singapore, dal citazionismo all’originalità.
La Gomera è molte cose, e non sembra identificarsi a fondo con nessuna di esse; alla sua base c’è una metafora di spaesamento, la stessa di una persona che decide di abbandonare una vita di certezze in un sistema però oppressivo per trasferirsi all’estero e studiare una nuova lingua.
Nel trattamento di Porumboiu, questa ossatura si arricchisce però di livelli sempre nuovi.
La prima è quella del genere, un neo-noir contemporaneo strapieno di ogni cliché - come il materasso traboccante di soldi che dà il via a una trama fatta di traffici mafiosi internazionali, corruzione, evasioni e quella lingua sopracitata, un antico codice “fischiato” in uso nelle Canarie, trasformato in moderno sotterfugio di comunicazione anti-sorveglianza.
Nello snocciolare queste vignette di genere una dopo l’altra, però, Porumboiu adotta una cadenza titubante e un po’ sconnessa, come quella di un parlante neofita in una nuova lingua. Tutto è recitato, e il regista chiede allo spettatore di distinguere tra il recitato volontario e quello semplicemente incerto. Il citazionismo è l’altra faccia di questa performance continua, ed è prima di tutto un citazionismo interno.
Cristi non solo ha le caratteristiche di imperturbabile e a volte incomprensibile dedizione a una causa bizzarra tipiche del cinema del regista rumeno (simile anche alla figura centrale del film precedente, il documentario Infinite Football sull’uomo che vuole cambiare le regole del calcio) ma segna l’effettivo ritorno del personaggio di Police, Adjective, che dieci anni fa era attanagliato da interrogativi linguistici all’interno del sistema e ora ne scopre di nuovi lontano da casa.
Attorno a lui, un microcosmo di ruoli più che di personaggi, funzioni più che individui. Dalla femme fatale Gilda, che richiama l’archetipo del 1946 interpretato da Rita Hayworth, ai gangster insegnanti e ai poliziotti segretamente loschi. E poi le allusioni e le finte musicali, anch’esse appena accennate (come "The Passenger" di Iggy Pop). Le suggestioni, troppo ingombranti per non essere volontariamente fuori posto, di Psyco e Sentieri Selvaggi (evocazione che in italiano si snoda tra il titolo originale di un film e quello internazionale dell’altro: searchers e whistlers).
Da regista di superbo acume, e in qualità di autore più sperimentale e giocoso della New Wave del cinema rumeno, Porumboiu sa trarre da questa strana raccolta di tracce slegate un film sempre in bilico tra il serio e il faceto, “irrintracciabile” sull’una e sull’altra frequenza, alla maniera dei suoi protagonisti che finiscono per usare il linguaggio dei fischi - pensato per confondersi nel canto degli uccelli tropicali - tra i tetti spogli di Bucarest.
All’orecchio di chi cerca una storia calata interamente nel noir, La Gomera suonerà stonato, o si interromperà sempre una nota prima del dovuto. Agli occhi di chi scruta il lavoro di uno dei simboli del cinema rumeno contemporaneo, apparirà invece un’allegoria che porta ancora i segni profondi del contesto socio-politico del paese, ma sotto una buffa maschera incapace di ingannare fino in fondo. In quale lingua, sembra chiedere Porumboiu, vogliamo interrogarci sui linguaggi?