Che cosa rimarrà dopo The Twilight Saga: Breaking Dawn - Parte 2.
di Roy Menarini
Sarebbe bene, un giorno, studiare con calma i finali delle saghe. Quelli molto amati (Il signore degli anelli – Il ritorno del re), quelli abbastanza apprezzati (Il cavaliere oscuro – Il ritorno), quelli che hanno lasciato un po' di amaro in bocca (Harry Potter e i doni della morte – Parte II) e quelli che tuttora vengono ricordati con fastidio dai fan delusi (gli episodi conclusivi delle serie tv I Soprano e Lost, o, più in là nel tempo, Il Padrino – Parte III).
Non possiamo guardare nella sfera di cristallo per sapere come sarà The Twilight Saga: Breaking Dawn - Parte 2, se non basandoci sul contenuto dei volumi di Stephenie Meyer. Tuttavia, come noto, non è su base squisitamente narrativa che gli appassionati ragionano: un buon finale di saga non deve limitarsi ad annacquare romanzi già noti (Harry Potter insegna) ma rispettare e fortificare un immaginario pre-esistente. Il primo episodio cinematografico di Twilight aveva, dalla sua, il merito di essere riuscito a estrarre dalla letteratura meyeriana la dimensione malinconica e profondamente americana del contesto provinciale. Non certo metropoli e ambienti scintillanti, bensì comunità più vicine a Twin Peaks che a Sex and the City. Per quanto diluito nei seguiti, il tema della microsocietà e delle sue implicazioni e responsabilità nei confronti di un sistema globale, è parso a molti un elemento originale. Dunque, non si è trattato solamente della consueta tendenza dei vampiri a generare metafore – di stampo erotico, anagrafico, razziale (vedi True Blood) e così via – quanto piuttosto sociale. La comunità, le separazioni etniche, i confini, le violenze, le appartenenze, tutto come nel western è stato sfruttato in questi anni dalla saga cinematografica più celebre di sempre. Al centro, ovviamente, Bella, la cui progressiva vampirizzazione – che passa attraverso la dimensione sessuale come situazione primaria intorno alla quale negoziare la propria identità di donna – crea timore e rifiuto all'esterno e nei personaggi di contorno. Nella ridda di interpretazioni differenti, e spesso in conflitto tra di loro, sulla serie di Twilight (di destra, di sinistra, evangelica, atea, e così via), le riflessioni sul concetto di nazione e di società ci paiono dunque le più suggestive.
Dal punto di vista più propriamente cinematografico, Twilight è stato decisivo per mostrare (a una Hollywood che risente della crisi finanziaria come tutti) come si possono ottenere successi stratosferici spendendo relativamente poco. L'investimento pubblicitario massiccio è stato ampiamente bilanciato da un costo produttivo tutt'altro che titanico, visti gli ambienti per lo più provinciali e domestici e gli effetti speciali abbastanza modesti. I "figli" di Twilight non si sono fatti attendere: Hunger Games, ancorché più costoso, va nella medesima direzione.
In attesa, perciò, di vedere l'ultimo capitolo, e al di là degli effettivi valori artistici (su cui molto ci sarebbe da discutere), vale la pena considerare la saga di Twilight come un suggestivo esperimento, baciato da enorme fortuna, giocato sul terreno simbolico di una nazione, e dei suoi giovani cittadini, i quali – tra terrorismo e guerre – non attendevano altro che un universo fiabesco e macabro al tempo stesso cui affezionarsi in un'epoca troppo politicizzata.