calebtrask
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domenica 19 settembre 2010
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lasciate ogni speranza, voi che entrate
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Mangia Prega Ama, una delle più grandi delusioni cinematografiche della stagione, dovrebbe essere preso ad esempio negativo da sceneggiatori e registi in erba poiché costituisce una summa di tutti gli errori immaginabili che si possono commettere nella stesura dei dialoghi, nella distribuzione del ritmo narrativo e in ultima analisi nella comunicazione di significato al pubblico. La disarmante banalità delle battute che l’onnipresente protagonista porge non sempre in modo impeccabile – il che solleva gravi riserve anche sull’interpretazione di Julia Roberts, forse convinta di essere in un improbabile ed inauspicato sequel di Runaway Bride- è resa più atroce dalla assenza di momenti introspettivi.
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Mangia Prega Ama, una delle più grandi delusioni cinematografiche della stagione, dovrebbe essere preso ad esempio negativo da sceneggiatori e registi in erba poiché costituisce una summa di tutti gli errori immaginabili che si possono commettere nella stesura dei dialoghi, nella distribuzione del ritmo narrativo e in ultima analisi nella comunicazione di significato al pubblico. La disarmante banalità delle battute che l’onnipresente protagonista porge non sempre in modo impeccabile – il che solleva gravi riserve anche sull’interpretazione di Julia Roberts, forse convinta di essere in un improbabile ed inauspicato sequel di Runaway Bride- è resa più atroce dalla assenza di momenti introspettivi. Benchè le scene siano sovente giustapposte freneticamente all’interno dei tre grandi capitoli corrispondenti alle locations italiana, indiana e balinese, considerando New York come il luogo di un fugace prologo, e si proceda talvolta per ellissi e sottintesi, l’intreccio risulta tutt’altro che dinamico, dilaniato invece da una ferrea tripartizione. La complessità dei temi appare sopraffatta da una forma più consona all’estetica pubblicitaria di cui condivide, purtroppo, anche la profondità. Vorrei citare come emblematico il momento in cui la protagonista, poco dopo aver compreso in una folgorante epiphany (Joyce ci perdoni) di non amare il marito (non più di 75 secondi dell’intera narrazione dedicati a questo non insignificante noto diegetico che anticiperebbe –in votis- il tema del Pray) si reca a teatro e vede recitare il prossimo oggetto della sua affezione (non userei il termine amore): James Franco. La scena, imperdonabile nella sua goffaggine, è dominata dall’insistita inquadratura di lei di cui spiccano i capelli discutibilmente retro-illuminati più adatta ad una pubblicità di shampoo. Qui un dettaglio incongruo, inutile ai fini narrativi, prende il sopravvento sul resto distraendo lo spettatore, come troppo spesso accade nel corso del film. Una delle impressioni più nette, infatti, è il continuo contrasto tra l’intenzione di significato ed il significato realmente veicolato, tra l’attinenza a temi esistenziali di primaria importanza e la spinta centrifuga all’insignificante contingente. Si procede con un’ancor più avvilente rappresentazione del momento del piacere, ossia Eat del titolo: una serie interminabile di luoghi comuni superati forse già dai tempi di Vacanze romane, offensiva per l’audience italiana. Chi ha mai visto un appartamento fatiscente senza acqua calda corrente nel pieno centro di Roma? Chi conosce le femmine più maschiliste di quelle elogiate nel Ventennio che sono ritratte come italiane tipiche? Chi cade in estasi di fronte alla pasta al pomodoro? Quante Dian anni ’70 circolano per le nostre strade? Una parziale consolazione ci giunge dall’analogo trattamento riservato all’India. Persino il doppiaggio della ragazza autoctona incontrata nella guru-teca si sforza con successo di essere stucchevole: volendo forse riproporre la diversità dell’inglese Indian dialect rispetto allo standard americano si ottiene un eloquio impedito, come da dentiera di carnevale pressoché privo di senso. Infine, apoteosi del prevedibile, l’incontro investimento a Bali con Javier Bardem ricalca in tutto l’incontro tra Russell Crowe e Marion Cotillard di A good Year. Da subito s’intuisce il destino lettereccio che legherà i due eroi ed il finale non penso sia mai stato più agognato da un pubblico sopraffatto dalla noia, in lotta con il sonno.
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relaypse
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lunedì 20 settembre 2010
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mangia prega...scappa!
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film decisamente pessimo
diviso in varie parti.
la prima parte in cui non si capisce niente...
Julia "campanellino" Roberts ha dei problemi esistenziali e come te li risolve?
molla tutto, marito americano medioman il solito lavoro di scrittrice di fama (ma sono tutti scrittori di fama i protagonisti dei film americani? tutti scrittori con la mega villa!) e si rimette in gioco e va in Italia per ..................mangiare!!! ma non è vero!! nel libro va in Italia...per...imparare l'italiano.
per i primi dieci minuti ero incuriosito...ma quando poi sono andati in Italia il regista ha dato libero sfogo alla sua ignoranza andando a fare la solita macchietta dell'italiano mangiaspaghetti amante del cibo e del dolce far niente, sfoderando poi una serie di luoghi comuni e situazioni che sembravano uscite da un film del duo Boldi-De Sica più che dalle pagine del bel libro da cui è stato tratto il film (quando ordinano il caffè e quando ordina al ristorante autoproclamandosi "una romana vera" stavo vomitando nel biccherone di cocacola).
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film decisamente pessimo
diviso in varie parti.
la prima parte in cui non si capisce niente...
Julia "campanellino" Roberts ha dei problemi esistenziali e come te li risolve?
molla tutto, marito americano medioman il solito lavoro di scrittrice di fama (ma sono tutti scrittori di fama i protagonisti dei film americani? tutti scrittori con la mega villa!) e si rimette in gioco e va in Italia per ..................mangiare!!! ma non è vero!! nel libro va in Italia...per...imparare l'italiano.
per i primi dieci minuti ero incuriosito...ma quando poi sono andati in Italia il regista ha dato libero sfogo alla sua ignoranza andando a fare la solita macchietta dell'italiano mangiaspaghetti amante del cibo e del dolce far niente, sfoderando poi una serie di luoghi comuni e situazioni che sembravano uscite da un film del duo Boldi-De Sica più che dalle pagine del bel libro da cui è stato tratto il film (quando ordinano il caffè e quando ordina al ristorante autoproclamandosi "una romana vera" stavo vomitando nel biccherone di cocacola).
siamo nel 2010 e il regista sembra più essere legato a un'immagine bucolica e retrò di un'Italia che forse ha visto solo in cartolina e nei film dei nostri vecchi "maestri" registi di 50 anni fa che all'Italia vera e propria.
la Roma bellissima fuori ma decadente all'interno (le impalcature dentro la stanza che cadeva a pezzi, la governante siciliana dai consigli utili per concludere con la vasca da rottamare senza acqua a corrente e funzionante solo ad acqua scaldata...).
scene completamente inventate (nel libro non ci sono), situazioni che in Italia non esistono spacciate come normalità, dialoghi veramente scadenti e senza nessun tipo di significato per concludere il tutto con il ......tacchino mangiato a colazione ...scena che trasuda americanità da tutti i pori...scena che da l'inizio a un'altra serie di luoghi comuni e apre alle successive altre pessime fasi del fim
certamente con quella scena si saranno garantiti i famori dei milioni di americani patriotici...non la mia.
il viaggio in India e l'incontro con il solito stereotipato texano ex-alcolista nonchè la stereotipata indiana costretta a sposarsi controvoglia nonchè alla iper sterotipata amica guaritrice in stile maestro Myiaghi di Karate Kid (del ti curo una lesione al tendine della gamba con una foglia di banano...).
conclusione e gran ballo finale con l'ex marito in stile Dirty Dancing e lacrimuccia che scappa subito riassorbita dal viaggio a Bali in cui Bardem viene spacciato per lo stereotipatissimo brasiliano caliente e saudadico ma triste e con il corazon rotto (e quì il doppiatore, così come nel caso del suo guru, ha delle colpe mica da ridere).
ed ecco i 2 secondi più tristi della storia di questo film...2 secondi che fanno decadere anche il buono che questo film ha....l'ex marito lasciato da 1 anni con alle spalle una presunta figlia che avrà almeno 3 anni con la nuova moglie...come a voler dire...medioman alla fine non l'ha presa in culo e quindi è giustificato.
e chi si è identificato in quel povero marito che non ha mica capito perchè è stato lasciato (migliaia di americani medi) avrà tirato sicuramente un sospiro di sollievo e consiglierà il film ad altri mediocri...bella mossa il regista!!
si finisce in bellezza con mille domande e questioni aperte, con una serie di questioni che non si capisce neanche bene perchè siano state affrontate o affrontate superficialmente .
una perdita di tempo!
leggete il libro che almeno quello è bello
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alexia62
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domenica 19 settembre 2010
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troppi stereotipi
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Solita commedia all'americana romantica,carina e divertente da guardare con le amiche anche solo per il fascino di Bardem.La Robert è sempre la stessa scontata e prevedibile,mentre sono molto belle le fotografie e le locations.
Non mi è piaciuta invece l'immagine che ne esce dell'Italia. Ma che cosa pensano in America che noi non facciamo altro che mangiare,litigare per bere un caffè e oziare? Durante la sua permanenza a Roma viene sottolineato un pò troppo spesso il " dolce far niente",a Napoli panni stesi,pizza e il tifo da bar...non ci sono un pò troppi stereotipi?Mah.....
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assunta1980
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domenica 19 settembre 2010
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un film che non rappresenta l'italia
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Il film è lento, lentissimo nonchè più che scontato. Se per superare la crisi una donna deve concedersi 1 anno di pausa in giro per il mondo non trovo che questa sia una soluzione vicina e concreta alle possibilità che ognuna di noi può avere per superare un problema vero. Non ho letto il libro - e non credo di leggerlo visto che ormai ho visto il film che tratta il tema con estrema superficialità e banalità - e non so se l'Italia venga rappresentata nel romanzo in modo adeguato: posso però esprimere il mio giudizio sulla pellicola dove viene rappresentato solo una parte del territorio italiano (tralasciando la Toscana il cui paesaggio viene invece mostrato in una scena ma dove non si capisce se siamo nei dintorni di Roma o in quale altra regione italiana, quindi ne viene sfruttata la potenzialità attrattiva della Toscana senza menzionarla) e dove si promuove solo un'immagine dell'Italia rappresentata da Roma capitale.
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Il film è lento, lentissimo nonchè più che scontato. Se per superare la crisi una donna deve concedersi 1 anno di pausa in giro per il mondo non trovo che questa sia una soluzione vicina e concreta alle possibilità che ognuna di noi può avere per superare un problema vero. Non ho letto il libro - e non credo di leggerlo visto che ormai ho visto il film che tratta il tema con estrema superficialità e banalità - e non so se l'Italia venga rappresentata nel romanzo in modo adeguato: posso però esprimere il mio giudizio sulla pellicola dove viene rappresentato solo una parte del territorio italiano (tralasciando la Toscana il cui paesaggio viene invece mostrato in una scena ma dove non si capisce se siamo nei dintorni di Roma o in quale altra regione italiana, quindi ne viene sfruttata la potenzialità attrattiva della Toscana senza menzionarla) e dove si promuove solo un'immagine dell'Italia rappresentata da Roma capitale. In più, in tutte le scene della prima parte del suo viaggio in Italia, l'unica cosa che sanno fare gli italiani dalla mattina alla sera è "il dolce fa niente", mangiare, trascurare gli edifici ed essere maleducati e dove la famiglia italiana viene stereotipata in un modello cattolico, poco moderno e poco aperto alle novità. Altra nota dolente: non si promuovono turisticamente altre città quali Firenze nè Venezia nè le nostre coste, non vi è alcun riferimento (escluso Roma) al patrimonio artistico italiano, al nostro made in italy, alla nostra piccola realtà imprenditoriale ed alle straordinarie capacità del popolo italiano che è la vera forza del nostro paese. In "Mangia, prega e ama" l'italiano medio bivacca, vive per il calcio e non sa fare altro. Sono dispiaciuta per il modo in cui viene rappresentata l'Italia del Sud nel mondo: a Napoli il massimo che ti aspetta all'arrivo è un dito medio di una dodicenne e panni del bucato stesi all'aria aperta.
Ancor più dispiaciuta che una delle mie attrici preferite - premio oscar per aver rappresentato il valore della giustizia in Erin Brockovich (probabilmente valore presente solo nel Suo paese) - abbia contribuito invece - per fama e per soldi - a dare un'immagine distorta del Nostro paese arrettrato e popolato da fannulloni.
Voto: 5
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angie81
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lunedì 20 settembre 2010
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il viaggio per il viaggio
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Si fa un gran parlare di stereotipi, di 'già visto', di commedia americana per antonomasia. E allora? Forse a tanti sfugge che i luoghi, i paesaggi, le persone, le abitudini, sono filtrati attraverso il punto di vista della protagonista. Insomma i clichès sono voluti, e hanno un senso. Lei 'vede' l'Italia come un luogo in cui mangiare, in cui abbandonarsi all'imperativo categorico del 'dolce far niente', così come sente l'India come un luogo in cui espiare i propri errori passati, e Bali come il luogo in cui trovare l' Amore. Il viaggio è il SUO, non il nostro, e in questa sorta di percorso catartico Liz passa attraverso un Inferno dantesco fatto di piaceri che ha l'allettante veste di una Roma, sì forse ferma agli anni cinquanta nel suo immaginario, ma proprio per questo ancora più affascinante e accattivante, per poi immergersi nel Purgatorio di una Calcutta grigia e caotica, ma che nasconde al suo interno la fonte della ritrovata serenità, fino a Bali, il Paradiso paesaggistico e del cuore.
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Si fa un gran parlare di stereotipi, di 'già visto', di commedia americana per antonomasia. E allora? Forse a tanti sfugge che i luoghi, i paesaggi, le persone, le abitudini, sono filtrati attraverso il punto di vista della protagonista. Insomma i clichès sono voluti, e hanno un senso. Lei 'vede' l'Italia come un luogo in cui mangiare, in cui abbandonarsi all'imperativo categorico del 'dolce far niente', così come sente l'India come un luogo in cui espiare i propri errori passati, e Bali come il luogo in cui trovare l' Amore. Il viaggio è il SUO, non il nostro, e in questa sorta di percorso catartico Liz passa attraverso un Inferno dantesco fatto di piaceri che ha l'allettante veste di una Roma, sì forse ferma agli anni cinquanta nel suo immaginario, ma proprio per questo ancora più affascinante e accattivante, per poi immergersi nel Purgatorio di una Calcutta grigia e caotica, ma che nasconde al suo interno la fonte della ritrovata serenità, fino a Bali, il Paradiso paesaggistico e del cuore. Giacchè il senso del viaggio alla fine è tutto lì: l'Amore. Un Amore che non è solo per un uomo ma in primiis per se stessa, l'accettazione della propria persona, con tutti i limiti e le contraddizioni. E la scoperta di ciò non potrebbe non avvenire attraverso delle guide: ogni dimensione ha il suo mentore, ora moltiplicato in un'allegra compagnia goliardica che la inizia ai piaceri della tavola, ora racchiuso in un peccatore che le insegna a perdonarsi per potere aprire la mente all'universo e farsi inondare da esso, ora nelle spoglie di un campione che le fa fare la scoperta più grande, quella di amare ed essere amata senza temere di rinunciare a una parte di sè, perchè a volte è giusto che gli equilibri si infrangano per poter respirare la vita. E alla fine, come sempre, ciò che conta non è la meta, ma il viaggio per il viaggio, gli incontri, le esperienze, i momenti vissuti, perchè è il confronto con l'altro, con ciò che è diverso da noi e dalle nostre abitudini, l'unico modo per lasciare una traccia di noi stessi e nello stesso tempo uno specchio per guardarci dentro. E in fondo "è sempre così: si parte per aiutare se stessi, e alla fine si finisce per aiutare gli altri".
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[+] il viaggio nel viaggio, per sè
(di toresani89)
[ - ] il viaggio nel viaggio, per sè
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lisadp
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domenica 26 settembre 2010
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terribile!!!
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Noioso alle masse!!! Ci si annoia da morire!!!
La trama è scialba, la protagonista interpreta un personaggio vuoto, noioso e che sinceramente mi verrebbe da prendere a sberle, perchè non solo fa del male a se stessa, ma anche a quelli che la circondano!!
I dialoghi sono pessimi, e il film non lascia niente dentro. Nemmeno la recitazione è stata molto di mio gradimento.
Davvero da evitare
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il conformista
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lunedì 20 settembre 2010
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lei veramente odiosa, almeno posti incantevoli
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LA Roberts è mal fotografata, scavata in volto con quei labbroni tristi in giù. Bellissimi i posti, soprattuto Bali. Buone vedute. Peccato per l'Italia con le suore fasulle ubiquite, la casa fatiscente che neanche ai primi del secolo con la proprietaria siciliana, la macchina di Argentero che risale al 1974. La Roberts è molto antipatica, un ruolo non giusto per lei, così solare e senza troppi lazzi per la testa. E poi è sexy come un gambo di sedano con zero feeling con Bardem, sembra l'incontro tra due frigoriferi. Sarebbe stata meglio fare accooppiare con Argentero o perfino il vecchio Richard Jenkins. Ridicoli i duetti con il marito e tristi quelli con l'amante.
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calebtrask
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domenica 19 settembre 2010
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lasciate ogni speranza, voi che entrate
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Mangia Prega Ama, una delle più grandi delusioni cinematografiche della stagione, dovrebbe essere preso ad esempio negativo da sceneggiatori e registi in erba poiché costituisce una summa di tutti gli errori immaginabili che si possono commettere nella stesura dei dialoghi, nella distribuzione del ritmo narrativo e in ultima analisi nella comunicazione di significato al pubblico. La disarmante banalità delle battute che l’onnipresente protagonista porge non sempre in modo impeccabile – il che solleva gravi riserve anche sull’interpretazione di Julia Roberts, forse convinta di essere in un improbabile ed inauspicato sequel di Runaway Bride- è resa più atroce dalla assenza di momenti introspettivi.
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Mangia Prega Ama, una delle più grandi delusioni cinematografiche della stagione, dovrebbe essere preso ad esempio negativo da sceneggiatori e registi in erba poiché costituisce una summa di tutti gli errori immaginabili che si possono commettere nella stesura dei dialoghi, nella distribuzione del ritmo narrativo e in ultima analisi nella comunicazione di significato al pubblico. La disarmante banalità delle battute che l’onnipresente protagonista porge non sempre in modo impeccabile – il che solleva gravi riserve anche sull’interpretazione di Julia Roberts, forse convinta di essere in un improbabile ed inauspicato sequel di Runaway Bride- è resa più atroce dalla assenza di momenti introspettivi. Benchè le scene siano sovente giustapposte freneticamente all’interno dei tre grandi capitoli corrispondenti alle locations italiana, indiana e balinese, considerando New York come il luogo di un fugace prologo, e si proceda talvolta per ellissi e sottintesi, l’intreccio risulta tutt’altro che dinamico, dilaniato invece da una ferrea tripartizione. La complessità dei temi appare sopraffatta da una forma più consona all’estetica pubblicitaria di cui condivide, purtroppo, anche la profondità. Vorrei citare come emblematico il momento in cui la protagonista, poco dopo aver compreso in una folgorante epiphany (Joyce ci perdoni) di non amare il marito (non più di 75 secondi dell’intera narrazione dedicati a questo non insignificante noto diegetico che anticiperebbe –in votis- il tema del Pray) si reca a teatro e vede recitare il prossimo oggetto della sua affezione (non userei il termine amore): James Franco. La scena, imperdonabile nella sua goffaggine, è dominata dall’insistita inquadratura di lei di cui spiccano i capelli discutibilmente retro-illuminati più adatta ad una pubblicità di shampoo. Qui un dettaglio incongruo, inutile ai fini narrativi, prende il sopravvento sul resto distraendo lo spettatore, come troppo spesso accade nel corso del film. Una delle impressioni più nette, infatti, è il continuo contrasto tra l’intenzione di significato ed il significato realmente veicolato, tra l’attinenza a temi esistenziali di primaria importanza e la spinta centrifuga all’insignificante contingente. Si procede con un’ancor più avvilente rappresentazione del momento del piacere, ossia Eat del titolo: una serie interminabile di luoghi comuni superati forse già dai tempi di Vacanze romane, offensiva per l’audience italiana. Chi ha mai visto un appartamento fatiscente senza acqua calda corrente nel pieno centro di Roma? Chi conosce le femmine più maschiliste di quelle elogiate nel Ventennio che sono ritratte come italiane tipiche? Chi cade in estasi di fronte alla pasta al pomodoro? Quante Dian anni ’70 circolano per le nostre strade? Una parziale consolazione ci giunge dall’analogo trattamento riservato all’India. Persino il doppiaggio della ragazza autoctona incontrata nella guru-teca si sforza con successo di essere stucchevole: volendo forse riproporre la diversità dell’inglese Indian dialect rispetto allo standard americano si ottiene un eloquio impedito, come da dentiera di carnevale pressoché privo di senso. Infine, apoteosi del prevedibile, l’incontro investimento a Bali con Javier Bardem ricalca in tutto l’incontro tra Russell Crowe e Marion Cotillard di A good Year. Da subito s’intuisce il destino lettereccio che legherà i due eroi ed il finale non penso sia mai stato più agognato da un pubblico sopraffatto dalla noia, in lotta con il sonno.
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gioska
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venerdì 24 settembre 2010
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eat, pray..sleep
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“E tu, che parola useresti per descriverti?“, chiede la ragazza olandese a Elizabeth Gilbert, intenta a divorare un piatto di carbonara in una trattoria romana. Elizabeth non lo sa, tergiversa. Ci arriverà alla fine del suo cammino, troverà la parola magica.
Per “Eat, pray, love” di Ryan Murphy, le parole sono tre: strazio, insopportabile, morte subitanea.
Lo strazio persiste fino alla fine, fino a quando, esausta, non esci dalla sala stropicciandoti gli occhi (e non per la luce dopo ore di oscurità – leggi “pisolino”). Comincia quando Liz, scrittrice in carriera con un bel matrimonio, una bella casa, un bel guardaroba e capelli invidiabili, decide che non ne può più della perfezione e divorzia e finisce quando decide di ricominciare ad amare dopo mesi di meditazione e pippone da devotrovareilmioequilibrio e santoni magici/sciamanici.
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“E tu, che parola useresti per descriverti?“, chiede la ragazza olandese a Elizabeth Gilbert, intenta a divorare un piatto di carbonara in una trattoria romana. Elizabeth non lo sa, tergiversa. Ci arriverà alla fine del suo cammino, troverà la parola magica.
Per “Eat, pray, love” di Ryan Murphy, le parole sono tre: strazio, insopportabile, morte subitanea.
Lo strazio persiste fino alla fine, fino a quando, esausta, non esci dalla sala stropicciandoti gli occhi (e non per la luce dopo ore di oscurità – leggi “pisolino”). Comincia quando Liz, scrittrice in carriera con un bel matrimonio, una bella casa, un bel guardaroba e capelli invidiabili, decide che non ne può più della perfezione e divorzia e finisce quando decide di ricominciare ad amare dopo mesi di meditazione e pippone da devotrovareilmioequilibrio e santoni magici/sciamanici.
La parola insopportabile ben si appiccica alle scene girate in Italia. Se di Eat - Mangiare, si tratta, allora che si mangi. Vestita del suo sorriso, Liz-Julia assaggia, azzanna, mordicchia qualunque cosa le capiti a tiro, circondata da un branco di macchiette italiche.Non si capisce come – ma questa è una pecca del doppiaggio – la povera Liz, che della lingua conosce solo la parola SPAGHETTI, riesca a cogliere le battute dell’immotivata padrona di casa siciliana che la ospita, tra cui la parola “sazizz‘”, per cui si intende sì, proprio quello, quello che piace tanto prendere alle americane giunte in Italia. E non si capisce neanche perché, se una scrittrice di successo può permettersi un viaggio intorno al mondo di un anno per riscoprire sè stessa, non possa anche pagarsi un appartamento decente, e non una casa fatiscente, senza scaldabagno, nel centro di una Roma sporca e volgare. Luca Argentero, doppiato come peggio non si potrebbe, la porta a spasso a conoscere le gesta di noi italici dediti al dolcefarniente, alla mano morta per strada, alla caciara, ma sempre fedeli a mammà. Se di Pray - Pregare, si tratta, allora che si preghi. Nei suoi adorabili chignon intrecciati e mossi dalla brezza indiana, Liz-Julia si butta a pesce nel mondo dei santoni, delle preghiere. Se di Love - Amore, dobbiamo parlare, allora amiamo: arriva Javier Bardem. Ancora alla scoperta di sè stessa, ancora incapace di amare, la povera Liz-Julia si affiderà alle pagine stantie di un vecchio mago, farà un po’ di beneficienza, e muoverà i sinuosi capelli alla brezza di Bali.
Tutto questo per circa 2 ore e un quarto.
Morte subitanea la desideri più o meno a metà, quando sei in fase Eat e sai che mancano all’appello ancora quella Pray e quella Love. Il film di Ryan Murphy, tratto dall’autobiografia di Elizabeth Gilbert, è frutto di stereotipi vecchi come il mondo di cui nessuno sentiva il bisogno. Il fatto che quello di Julia sia un personaggio reale non fa che rendere il tutto ancora più antipatico, più futile. Gli spunti sono tutti messi lì per emozionare, ma se di lacrime si parla, non le ha certo provocate l’emozione. Una donna può desiderare di fuggire da una vita che tutti credono perfetta anche mille volte nella vita e prendere e partire, ah, è un vecchio sogno di tutti. Ma la versione cinematografica del romanzo ce la rende solo odiosa, superficiale e lamentosa.
Due frasi filosofiche sulla vita e sulla ricerca interiore buttate qua e là non fanno certo pathos. Al massimo, ti fanno ardetemente sperare una cosa.
In questo caso, la parola giusta è fine.
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zzimizz
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venerdì 24 settembre 2010
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più scontato di quanto ci si aspetti
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La locandina, il viso di Julia Roberts e il titolo sarebbero già sufficienti ad allontanare qualsiasi cinefilo dotato di un minimo di buon senso da questo mieloso bon bon per quarantenni in vena di tristezze.
Qualsiasi testardo che, come me, si lascia trascinare da qualche ragazza in cerca di sdolcinerie per scoprire se si, il film è DAVVERO come promette, abbandoni la tenzone: la scontatezza, già palpabile nelle prime battute, prosegue in crescendo per tutti i 133 minuti di questo sconclusionato videoclip.
Sorvolando sulla ambientazione mielosa classica del genere, che a qualcuno potrà pur risultare attraente, lo svolgimento della storia è privo di uno svolgimento organico, e presenta episodi a se stanti che poco hanno a che vedere, alla fine, sul presunto percorso interiore della protagonista, che culmina in un finale che sembra estratto li, in extremis, aprendo l'incarto di un cioccolatino, per dare l'impressione di un punto di arrivo finale che non c'è, come del resto non c'è nemmeno la storia.
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La locandina, il viso di Julia Roberts e il titolo sarebbero già sufficienti ad allontanare qualsiasi cinefilo dotato di un minimo di buon senso da questo mieloso bon bon per quarantenni in vena di tristezze.
Qualsiasi testardo che, come me, si lascia trascinare da qualche ragazza in cerca di sdolcinerie per scoprire se si, il film è DAVVERO come promette, abbandoni la tenzone: la scontatezza, già palpabile nelle prime battute, prosegue in crescendo per tutti i 133 minuti di questo sconclusionato videoclip.
Sorvolando sulla ambientazione mielosa classica del genere, che a qualcuno potrà pur risultare attraente, lo svolgimento della storia è privo di uno svolgimento organico, e presenta episodi a se stanti che poco hanno a che vedere, alla fine, sul presunto percorso interiore della protagonista, che culmina in un finale che sembra estratto li, in extremis, aprendo l'incarto di un cioccolatino, per dare l'impressione di un punto di arrivo finale che non c'è, come del resto non c'è nemmeno la storia.
Piacevole in parte l'ambientazione romana, che naviga sul filo del rasoio tra l'apologia dell'"art de vivre" all'italiana, e lo scherno totale di un popolo che forse (ma dico forse in effetti) sa mettere insieme anche qualcosa più che un piatto di maccheroni.
Trascurabile, invece, l'ambientazione indiana e indonesiana, dove a parte qualche cornicione esotico, non si vede nulla dei paesaggi che questi posti potrebbero offrire; l'intera sequenza potrebbe benissimo essere stata girata in un capannone di Cinecittà.
Consiglio finale: volete una serata più eccitante? compratevi un bel barattolo di melassa e gustatevelo guardando a casa alla tv l'ultima serie di sex and the city o qualche sitcom del genere, magari facendo un po' di zapping di tanto in tanto.
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