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Paura racconta della paura di perdere una figlia, della paura di perdere un amore. James Foley parte bene, gioca in casa: l'assetto familiare che si corrode al crescere delle frustrazioni, dei sensi di colpa, delle ansie di libertà, dei meccanismi di competizione. La prima parte pone in essere la seduzione della ragazza di buona famiglia da parte di un soggetto sfuggente. Il clima è torbido, lo sguardo sposa la soggettiva dell'estraneo, ma anche il candido stupore delle adolescenti che scoprono il sesso, i sentimenti e il potere del proprio corpo. Lo studio di Foley è quasi sociologico e psicanalitico, ma la trama riporta nei ranghi i voli del regista, intenti a confondere le acque parlando di Lolita e American Beauty, ipocrite gelosie e orgasmi sulle Montagne Russe. Il volto del mostro assume connotati repellenti e a niente valgono alcuni dettagli che potrebbero ingentilirne i tratti. Il nucleo familiare si chiude in se stesso, addita le Cattive Compagnie, smette i panni provocatori e, all'esterno, scopre le patologie insanabili dei solitari e dei reietti, per cui non esiste appello.
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