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ONDA&FUORIONDA

Il '68: non è facile raccontarlo.
di Pino Farinotti

In foto Kim Rossi Stuart e Micaela Ramazzotti in una scena del film (foto di Emanuele Scarpa).
Micaela Ramazzotti Altri nomi: (Michaela Ramazzotti ) (46 anni) 17 gennaio 1979, Roma (Italia) - Capricorno. Interpreta Serena nel film di Daniele Luchetti Anni felici.

domenica 6 ottobre 2013 - Focus

Anni felici è il nuovo film di Daniele Luchetti. Come didascalia è stato rappresentato come "crisi determinata dal sessantotto", dunque capovolgimento dei valori, trasgressione, eccetera. Guido (Rossi Stuart) è un artista che vuole essere trasgressivo a oltranza, magari più per mercato che per convinzione. Serena (Micaela Ramazzotti), sua moglie di famiglia borghese. Sarebbe meno "impegnata", ma se tuo marito trasgredisce cerchi di essere... all' altezza. Il nodo si forma quando Serena si innamora... di Helke, la gallerista del marito. L'amore omosessuale sarebbe un codice di trasgressione al quale i cineasti contemporanei non riescono a resistere. Ma intendo allargare il discorso. Raccontare il Sessantotto è difficile, è una piattaforma troppo grande e complessa. Si tratta di inquadrare il movimento allora, solo allora, oppure in prospettiva, ci sono troppi segmenti: la lotta, la politica pura, le idee, il sentimento, lo studio, il cambiamento, la rivoluzione nelle sue forme. Per questa "identificazione" ricorro, come partenza, a uno studioso, un sociologo che è una delle massime autorità europee rispetto alla lettura dei movimenti, e che fa testo, Francesco Alberoni. Nel suo saggio "Il cosiddetto '68"" il "professore" scriveva:

"... L'ondata di rinnovamento culturale americano e inglese arriva in Italia nel 1966-67 con la musica dei Beatles e una grande voglia di divertirsi. La metà degli anni '60 ha visto nascere le più belle canzoni italiane, i più famosi locali notturni, stupendi film. Giovani e meno giovani hanno avuto una vera e propria esperienza di rinnovamento, di rinascita. Questa fase dei movimenti giovanili in Italia ha assunto il nome di "beat generation" e di "capelloni". Nascono dovunque discoteche, i locali "piper". Fra alcuni giovani del nord - non nelle università, fra la gente comune che lavora e che viaggia - si diffondono la musica di Joan Baez, Bob Dylan, le poesie di Ferlinghetti, Ginsburg e Kerouac, la libertà sessuale, generando un'atmosfera di fermento creativo, di gioia, di entusiasmo, di speranza quale non si era mai visto prima. I giovani nello "stato nascente" del loro movimento vivono quella che abbiamo descritto come esperienza fondamentale: movimenti, il senso di un rinnovamento radicale in cui trionferà la verità, la sincerità, la giustizia, la felicità...".
E ancora.

"...Prima c'erano i beatnick, i capelloni allegri, irridenti, hanno immagini di Walt Disney, colori psichedelici. Il movimento studentesco irrompe con le immagini del Che Guevara, di Fidel Castro, Marx, Lenin e Mao Tze Tung. In pochi mesi le componenti hippy, ludica, situazionista vengono sconfitte e il movimento viene totalmente egemonizzato dal marxismo rivoluzionario. Al posto dei Beatles e di Joan Baez subentrano gli inni anarchici, bella ciao e bandiera rossa..."

Due brevi stralci che comunque inquadrano l'essenza di quel movimento.

Ci sono decine di film che toccano il '68. Ne rilevo due, recenti, Le ombre rosse (2009) di Maselli e Il grande sogno (2009) di Placido che racconta l'esserci in mezzo, allora. Quei film e quasi tutti gli altri, Anni felici compreso, partono da un peccato originale paradossale: trattasi di cinema, che deve rispondere a certe regole di momenti, di spunti che si accendono e si spengono rapidamente, è un fatto di tempo, di struttura, e legittimamente, al cineasta appartiene quella cultura. Il film deve risolvere in chiave di spettacolo e di sintesi, deve essere veloce e quel meccanismo ti fa camminare sul filo del pericolo banale, della maniera e del cliché. Un pericolo che gli autori davvero bravi sanno evitare. E così accade che queste storie siano magari appassionate, ma già viste, di maniera e di cliché, di "dentro o fuori", di buoni e cattivi, di intelligenti e stupidi, di bianco e di rosso. Senza contorni. E qui il codice diventa la militanza e il passo successivo è la faziosità, che sarebbe legittima, un'energia che si aggiunge allo strumento di chi è in trincea. Ma se la faziosità non concede nulla all'idea altrui, diversa, anzi, la stravolge e la distorce, allora la proposta, la denuncia, l'indicazione, non servono, si annullano, ottengono l'effetto opposto.

Mediazione
È proprio nella mediazione della faziosità che gioca l'intelligenza, una mediazione che gli autori veri, che hanno cultura, sentimenti e onestà appropriati, sanno fare. I cliché in positivo sono perdonabili, sono giovanili, anche se, come si dice, annunciati: Guevara, Luther King, Mao, Bob Kennedy, il napalm e il Vietnam, tanto Vietnam. Tutti i buoni-anzi-buonissimi da una parte, tutti i cattivi-anzi-cattivissimi dall'altra. Perfeziono il segnale con qualcosa di personale: quel che so del '68, dunque la mia testimonianza, anche come autore, ma soprattutto l'avvallo di un altro testimone molto importante. Studiavo "allora" alla Statale ed ero in ciò che accadeva. Fra gli studenti c'era Mario Capanna. È notorio. Si distingueva, anche questo è notorio. E molti si sono incrociati con lui, me compreso. A bocce ferme, a ossa monde, a conti fatti, Capanna raccontava secondo la sua attitudine di uomo intelligente, umano e onesto: vicende sconosciute, individuali, importanti e divertenti. Insistette sul fatto che più gli premeva: "attenzione, davvero attenzione a non confondere quel movimento con qualcosa che innescasse, o fosse legato al terrorismo". Il grande comandamento, che apparteneva a tutti noi, la grande illusione era, si sa, cambiare il mondo.
Stare col debole, la cultura solidale e contro il privilegio, la rabbia e l'azione: tutto questo c'era, e c'eravamo dentro. E pure nelle evoluzioni successive, nei destini e nei compromessi, "tutto questo" non ce lo avrebbe mai tolto nessuno. Dopo tanti anni, ritengo che le eredità, i segnali, il risultato del '68, siano più cattivi che buoni. Lo dico in chiave di cinema e di cultura, la chiave che mi appartiene: prevalevano modelli persino troppo normali e prevaleva l'ideologia, l'eroe spariva e con lui la bellezza, quelli che erano "caratteri" diventavano protagonisti. E molto altro a snaturare la natura primaria del cinema e il suo compito. E non è un concetto che si presta al sospetto, non è un giudizio politico. Semplicemente: una volta adulti, quasi tutti, siamo peggiorati. Ma ciò che rimane, consolidato e univoco, soprattutto, è una qualità diversa, probabilmente minore, del cinema e di tutto il resto.

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