Crisi

   
   
   

Crisi. Valutazione 3 stelle su cinque

di Nicolas Bilchi


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venerdì 21 settembre 2012

Di questo film si può dire tutto (a ragione): che la storia sia piuttosto convenzionale, che alcuni passaggi risultino artificiosi e gli agganci narrativi a tratti forzati, che Bergman, che qui ha 28 anni, cerchi di tradurre sullo schermo la sua immensa riflessione etico-umanistica ma finisca per pasticciare una messe di tematiche che vengono solo accennate, poi lasciate nel vago di un lampo scorto per un solo istante. Tuttavia Crisi ha la meravigliosa ingenuità dell'opera prima, il tocco genuino di un lavoro nato da un energico conato creativo, un film concepito semplicemente per esistere. Fare un film per fare un film, con la gioiosità del giovane che affronta per la prima volta un mondo nei confronti del quale era sempre rimasto ai margini (Bergman, prima d'allora, si era dedicato esclusivamente al lavoro sulle sceneggiature, un aspetto assai più riconducibile alla letteratura, in linea generale, che al cinema in senso stretto sul piano espressivo). E infatti guardando questo film si può facilmente individuarne l'assoluta limpidezza, il tocco leggero, la tranquillità nella gestione delle parti e nel lavoro di montaggio, il profondo senso di pacificazione che accompagna l'atto creativo. Ingmar Bergman avrebbe nel tempo ottenuto risultati forse irripetibili, avrebbe affrontato in modo del tutto particolare grandi temi sociali, culturali, esistenziali, sempre profondamente radicati nella sua esperienza di vita specifica; ma forse mai avrebbe fatto un film che, al di là della drammaticità del racconto, si sarebbe mostrato come il parto di uno sforzo così positivamente energico. Crisi lascia trapelare tra le righe della storia molti punti che poi diventeranno un cardine nel cinema bergmaniano: in primis il contrasto generazionale (si pensi al Posto delle fragole), ma anche la riflessione sull'indecifrabilità del bene e del male in un mondo in cui questi principi si confondono e coesistono ininterrottamente. Il film si pone a metà tra un nascente cinema moderno, le cui avvisaglie stavano manifestandosi in quegli anni con il Neorealismo e il suo straordinario amplificatore sul piano internazionale, rappresentato dalla critica francese, e la tradizione hollywoodiana; le tematiche si distaccano da qualsiasi luogo comune: viene meno la distinzione rigida tra personaggi buoni e cattivi (anche i peggiori individui si mostrano in fondo degni di compassione), l'analisi delle dinamiche familiari è assolutamente non convenzionale, mentre rimane un po' classico il contrasto tra valori di campagna e di città. Anche stilisticamente si riflette sull'opera questa ambivalenza tra spinte innovative e un abbandono dolce nella sicurezza delle tecniche ben collaudate. Da una parte Bergman mostra di aver assimilato bene la lezione di Quarto potere, giocando spesso con scene lunghe all'interno delle quali si innesta un lavoro della macchina che, pur riportando alla logica della trasparenza, per cui viene sottolineato artificiosamente ciò che del fenomeno ( = momento narrativo) che si sta mostrando deve essere considerato importante concettualmente e diegeticamente dallo spettatore, segue modalità d'azione autonome, servendosi propriamente dei movimenti del mezzo piuttosto che del montaggio (vero cardine del cinema hollywoodiano classico), in modo tale che si "senta" la presenza della macchina e dell'autore che la muove. A ciò si accompagna però nel contempo la ripresa delle forme registiche tipiche della produzione americana, si pensi al massiccio uso del campo/controcampo, ma anche un continuo omaggio ai risultati tecnici dei primi sperimentatori, nel ricorso ai "trucchi" del cinema delle origini, soprattutto il principio della doppia esposizione. Tutto questo discorso ci porta di fronte ad un'opera che, per quanto non esente da pecche, legate soprattutto alla gestione del ritmo e delle logiche narrative, fornisce spunti molto utili per la formarzione di una base di indagine attorno alla poetica di Ingmar Bergman, di cui mette con evidenza in luce le tematiche che, qui solo evocate, verranno sviluppate con maggiore sistematicità in lavori successivi; il continuo lavoro di mediazione stilistica volto a debellare i germi sia dei clichè più fini a sè stessi del metodo di rappresentazione istituzionale sia, e con altrettanta sicurezza, le soluzioni più radicali della sperimentazione tecnica moderna; infine il continuo confrontarsi del regista con i grandi miti della cinematografia e l'atteggiamento di reverenza e, al contempo, di ispirazione che egli mantiene nei loro confronti.

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