Un uomo chiamato cavallo

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Un film di Elliot Silverstein. Con Richard Harris, Judith Anderson, Jean Gascon, Manu Tupou, James Gammon.
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Titolo originale A Man Called Horse. Western, durata 114 min. - USA 1970. MYMONETRO Un uomo chiamato cavallo * * * - - valutazione media: 3,17 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Un uomo chiamato Cavallo. Valutazione 3 stelle su cinque

di Nicolas Bilchi


Feedback: 3995 | altri commenti e recensioni di Nicolas Bilchi
sabato 16 aprile 2011

Ci sono delle date che hanno segnato la storia del cinema; per il western, due momenti fondamentali furono il 1939 (l'uscita di "Ombre rosse") e il 1970, quando Hollywood realizzò tre film destinati a stravolgere per sempre il modo di intendere il West: "Soldato blu", "Piccolo grande uomo" e "Un uomo chiamato Cavallo". Dei tre, quest'ultimo è sicuramente il meno riuscito, non per suoi demeriti, ma piuttosto perchè gli altri due raggiunsero picchi qualitativi tali da essere definiti due capolavori del genere molto difficili da raggiungere. Silverstein, regista che già cinque anni prima, con "Cat Ballou", aveva dato avvio alla riscrittura del cinema di genere, infrangendone i canoni tradizionali e "smitizzando" la leggenda della Frontiera, qui insegue lo stesso obiettivo, ma agisce con maggiore sobrietà ed ordine. La storia è quella di un nobile inglese di nome John Morgan (nobilitato dalla prestazione famosissima di Richard Harris) che si è elevato socialmente senza mai guadagnare nulla, semplicemente "eriditando" dalla sua famiglia o grazie ad inaspettati colpi di fortuna. Morgan va nell'America delle praterie e del selvaggio West perchè nauseato dalla sua esistenza, che gli appare banale e priva di senso; viene catturato da una tribù di indiani Sioux e qui donato alla vecchia squat del villaggio (una irriconoscibile Judith Anderson) come animale da soma: Shunka Wakan, in lingua Sioux, appunto, "uomo-cavallo".
Il grande difetto di "Un uomo chiamato Cavallo" è che, a dispetto dell'accurata ricostruzione storica ed etnografica che conferì un realismo mai visto prima agli indiani del cinema western, questo film non può essere considerato un'opera sugli indiani: si tratta invece di un dramma monocorde in cui il personaggio di Harris domina interamente la scena. Dopo essere stato catturato, John Morgan inizia un cammino di purificazione interiore che lo porterà alla scoperta di nuovi valori espressi nella vita primitiva e naturale dei Sioux; gradualmente, con un ritmo squisitamente lento, Silverstein guida l'uomo ad una morte, che è una purificazione dalla sua esistenza vuota e meschina di prima, e ad una rinascita che farà sì che egli si sposi con una giovane del luogo e si ponga addirittura a capo del villaggio quando i suoi abitanti sono coinvolti in una dura battaglia contro una tribù rivale (scontro peraltro raccontato con una efficacia visiva assolutamente lodevole). Morgan diviene cavallo, in una condizione inferiore a quella umana, e per la prima volta nella sua vita dovrà lottare per guadagnarsi qualcosa: il diritto di essere riconosciuto un essere umano... proprio come gli indiani, in un magnifico rovesciamento di prospettiva rispetto a tutto il cinema di Frontiera precedente. In tutto questo però manca veramente l'interesse per il popolo indiano. A parte alcuni momenti, i pellerossa continuano ad essere rappresentati come figure distanti dall'uomo bianco, che si esprimono in un linguaggio fin troppo simile sonoramente a quello delle belve, e quei profondi valori che colpiscono Morgan e lo inducono a dire nel finale, quando è costretto a ritornare nel mondo civilizzato, "addio mia libertà", non vengono mai veramente toccati ed approfonditi, proprio perchè l'interesse del regista è quello di raccontare l'esperienza interiore del protagonista (e in questo il film riesce superbamente, raggiungendo il proprio akmè nella scena del sacrificio al Dio del Sole), non di difendere e riabilitare l'immagine, troppo spesso denigrata dalla grande fucina hollywoodiana, di popolazioni che in realtà si resero espressione di ideali semplici e ma profondissimi, in un rapporto di armonia tra uomo e natura ormai andato perduto. A questo, appunto, penseranno i due veri capolavori del 1970...

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