Lasciamo stare per una volta il confronto con il romanzo dell’ebreo Richler da cui il film è tratto; primo perché io non l’ho letto; secondo perché non si può chiedere ad ogni spettatore di conoscere la fonte letteraria dei film che va a vedere; terzo perché detto confronto nel 90% dei casi è a favore del libro; quarto perché la discussione se la trasposizione cinematografica sia o meno conforme alla sua fonte rischia di distogliere dall’analisi e dall’effettiva fruizione del film.
Detto questo, chi è Barney?
“Ho trovato un mostro, e quello sono io”.
B. è tutto ed il contrario di tutto, e ciò che è lo è all’eccesso. B. è un poliedro dalle tante facce eterogenee, talune specchio altre ombre, lucide o opache, lisce o sfregiate. B. identifica il proprio vissuto nel massimo vivibile, attraversa con inconsapevole audacia il tracciato multiforme della tipologia umana, senza ordine e senza regole precostituite; anzi rifugge dalle regole, è anticonvenzionale, è scorretto. B. è irriverente quasi per trasmissione genetica da parte del padre, più di lui socialmente scorretto ed impavidamente sincero, a lui sempre vicino attraverso l’esempio, il consiglio, il sostegno nelle situazioni controcorrente, l’avallo nelle scelte difficili, la complicità nel colpire il perbenismo anche della loro stessa gente, cioè la comunità ebraica. B. è un carro armato, a volte scassato e insozzato, a volte efficiente e tirato a lucido, ma sempre con i cingoli in movimento e pronto a sparare a colpo sicuro o all’impazzata, a seconda delle diverse contingenze. B. crede nell’amicizia, vi sprofonda, vi cerca appoggio e solidarietà ogni volta che supera i confini, che si flagella con lo staffile dei suoi errori. B. potrebbe avere commesso la peggiore delle infamie, aver cioè ucciso il suo migliore amico fedifrago, ma il caso lo priva della possibilità di assistere al suo ipotetico omicidio, su cui né lui né il poliziotto che lo perseguita senza tregua né nessun altro avrà mai certezze (solo B. rivive in uno sprazzo della sua insania senile lo scenario della scomparsa dell’amico, ma l’immagine è troppo sgranata e priva di dettagli per ricostruire l’accaduto). B. apprezza le donne, disprezza le donne, le strapazza, le manda al diavolo, ne sposa tre diversissime tra loro, così come è irrimediabilmente attratto dai più seducenti strumenti di autodistruzione, quali l’alcool, la droga, l’errore fatale, il senso di colpa. Ma B. ama una donna, e, dal momento che l’ha trovata e poi sposata, non la lascerà più neanche quando lei lascerà lui, e la ama perché è perfetta quanto lui rifugge dalla perfezione, il che gli offrirà la più grande occasione (una di per sé insignificante scappatella) di distruggere se stesso e l’unica, immensa cosa che nella sua lunga peregrinazione esistenziale ha mai costruito. B. invecchia e, quasi per contrappasso, viene privato della memoria, del piacere di riprovare almeno nel ricordo quel misto di eventi e sensazioni che ne hanno fatto un uomo ricco, nel bene e nel male, di esperienze a tutto campo, di vita senza interpunzioni, senza vuoti, senza rimpianti. B. muore nella consapevolezza che la donna amata, ormai da tempo moglie di un uomo aitante e di successo, si ricongiungerà un giorno con il suo corpo al corpo di lui, nell’immobilità senza rischi e senza fallibilità della non vita.
Il regista Richard J. Lewis, che viene dalla tecno-fiction televisiva di C.S.I., ha affidato il racconto della vita di Barney non ad una voce narrante, ma alla illustrazione filmica attraverso un flash-back lungo 40 anni, come se fosse appunto la sua versione, la versione di tutta la sua vita e non solo della scomparsa dell’amico, su cui il libro, a quanto ne so, insiste molto di più. Una regia equilibrata, tutta concentrata sull’evoluzione dei personaggi e delle loro dinamiche, e lungi dall’essere piatta, accompagna con discrezione e guida sicura l’estro del protagonista, uno straordinario Paul Giamatti, grande astro emergente (sia pure ultraquarantenne) del panorama cinematografico mondiale, grandissimo nel rappresentare alla perfezione le metamorfosi anagrafiche anche fisiche oltre che mentali di Barney, aggiungendo notevoli meriti recitativi a quelli tecnici del truccatore. Da ricordare alcune scene di rara intensità come la dolorosa contemplazione da parte di Barney del padre morto, disteso su un lettino come il Cristo di Mantegna. Così come memorabili sono i “duetti” tra Giamatti /Barney e l’ebreo Dustin Hoffmann/padre, a cui è principalmente affidato lo spirito tipicamente yiddish fatto di ironia, battuta pronta e dissacrante, atteggiamento argutamente scorretto. Ma è Giamatti, con quel corpo sgraziato, goffo ed anonimo ma la versatilità ed il piglio professionale di un veterano, che troneggia dall’inizio alla fine.
Abbiamo trovato un mostro (di bravura), e quello è Paul Giamatti.
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