Sto pensando di finirla qui

Un film di Charlie Kaufman. Con Toni Collette, Jessie Buckley, Jesse Plemons, Jason Ralph.
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Titolo originale I'm Thinking of Ending Things. Drammatico, - USA 2020. MYMONETRO Sto pensando di finirla qui * * * 1/2 - valutazione media: 3,84 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Spaesante e un po’ troppo pretenzioso Valutazione 3 stelle su cinque

di carlosantoni


Feedback: 5973 | altri commenti e recensioni di carlosantoni
mercoledì 17 febbraio 2021

Parto da una premessa: ho letto che il film è tratto da un romanzo, che non conosco; ebbene, come in ogni film tratto da un’opera letteraria, credo che l’ultima preoccupazione per chi osserva e critica sia quella di valutare la sua corrispondenza alla traccia letteraria, o di desumere il film dal libro: il film è opera in sé, e va giudicata, pur nella considerazione del contesto, per quella che è. Dunque cercherò di parlare del film e non di quello che intendesse dire il libro, per esempio che la protagonista probabilmente non esiste, è solo una costruzione mentale di Jake: poiché a mio modo di vedere, questo dal film non traspare minimamente.
Di cosa parla il film? Di tante cose, di troppe anzi, per cui di troppe devo qui parlare io, ma riconducibili a due direttrici principali: la prima è difficoltà o impossibilità di raggiungere un punto fermo sulla realtà delle cose: tutto e relativo, come sapeva Einstein e come sa bene Lucy che è una ricercatrice di fisica nucleare: questa impossibilità affiora carsicamente durante tutto il film, che infatti non dà certezza di niente. Il secondo è l’essere attraversati dal tempo; Lucy pensa: “Il tempo passa attraverso noi come il vento freddo”. E meno male che si è astenuta dal citare, tra decine di altri, Heidegger e il suo “essere gettati nel tempo”.
La struttura del film è strettamente tripartita, come la forma-sonata: c’è la lunga, estenuante parte iniziale del viaggio di andata, certamente la più coesa e coerente; poi lo sviluppo centrale nella casa dei genitori del protagonista, la più ricca di sviluppi; quindi la parte finale, certamente la più complessa e però disorganica, anzi confusionaria e infine manifestamente grottesca. “Sto pensando di finirla qui” è un titolo ambiguo, volendo anche lugubre (finire cosa? La relazione con Jake da parte di Lucy? Con la vita?) destinato fin da subito a introdurre lo spettatore in un ambiente intensamente “Unheimlich”. La scena si apre sull’interno della casa dei genitori di Jake, che la protagonista, qui voce fuori campo, sta per andare a visitare assieme al suo ragazzo. Si saprà che si tratta di una fattoria, presumibilmente del Mid-West, abitata da classici farmers dell’”America profonda”, ma a giudicare dai suoi interni si direbbe un’abitazione medio borghese, molto curata, elegante, ordinata, dai colori a volte spenti, altre volte caldi, sempre accoglienti. Vi si nota ad una parete una riproduzione del “Viandante sul mare di nebbia” di Friedrich, una vecchia macchina da cucire Singer, e nell’angolo di una stanza una solitaria poltroncina per disabili: tutti segni di esistenze, vissuti, di concretezza della vita, degli affanni quotidiani così come della sofferenza, ma senza che di tutto ciò si dia poi spiegazione, conferma…
Durante il viaggio iniziale i protagonisti in qualche modo si presentano allo spettatore. Jake, interpretato da un bravissimo Jesse Plemons, inquietantemente brutto e incombente, pare un po’ fuori posto in una storia giovanile di coppia, appare educato ma goffo, impacciato… e anche oscuramente minaccioso: è troppo gentile, troppo pacato per non destare sospetti. Non si capisce bene cosa faccia nella vita, ma il suo background viene fuori poco per volta: non così scarso come si potrebbe pensare agl’inizi, tutt’altro, ma in ogni caso molto caotico (la mamma, a Lucy lo definirà “un manipolatore”). Di Lucy (ma come si chiama precisamente? Il suo Jake la chiama con nomi diversi…) si sa che è una ricercatrice di fisica nucleare, si vede subito che è molto colta e che lei stessa non sa bene perché ha accettato quel viaggio per andare a conoscere i futuri suoceri, visto che del “suo” Jake dopo qualche settimana di flirt (neanche ricorda precisamente quante) già non ne può più. Durante il viaggio di andata in auto, nel bel mezzo di una tormenta che sta aumentando, la mdp ci mostra i protagonisti in continuo primo piano, ossessivamente, attraverso il lunotto anteriore picchiettato dalla neve che cade copiosa, o dall’interno: ma non molla mai il primo o primissimo piano. Lucy invece appare quanto mai distante in quella obbligata vicinanza fisica, chiusa, pentita della sua relazione con Jake: cerca di chiudersi nei suoi pensieri, per scacciare la noia del viaggio e di quella presenza di cui è stufa; Jake la sollecita continuamente, chiedendo, dialogando. Scocciata, Lucy pensa: “Sto pensando di finirla qui”, e come se il pensiero di Lucy avesse un suono, Jake si volta e le chiede: “Come? Hai detto qualcosa?”. Eh sì, ci sono fenomeni strani nella vita, non sempre spiegabili, decifrabili. Nel film ne vedremo una caterva: tutto sommato questo è quello meno gratuito.
È un film eccessivamente verboso, in fondo, i tre tempi della nostra forma-sonata potrebbero essere tre scene teatrali; e soprattutto inutilmente zeppo di citazioni d’ogni tipo. Inizia Lucy citando l’incipit famosissimo di Anna Karenina: “Tutte le famiglie felici si assomigliano”, cui però non dà seguito con “…ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”. E giù una discussione tra i due, che non capisco dove porti. Continua poi Jake citando una decina, o una ventina, di artisti musicali folk o pop. Poi si passa a William Worsworth, le cui poesie a Jake piacciono moltissimo. Poi Jake chiede a Lucy (che non ne avrebbe voglia) di declamare una sua composizione… che poi però si verrà a sapere non è farina del suo sacco, ma tratta da “Perfect Mouth – Ossa di cane”, pubblicata da Rotten. Poi ci deliziano con osservazioni a proposito di “Una moglie” di Cassavetes, con tanto di analisi diegetica da parte di entrambi, e così via. Sinceramente fino a non poterne più: a che serve tutto quel parlare di tutto?
Giunti a casa dei genitori di Jake (è sera, tutto è coperto di neve e la tormenta sta crescendo), la mamma di lui saluta da dietro i vetri di una finestra illuminata al primo piano, sarebbe tempo di entrare, ma Jake pretende che prima Lucy lo segua nel fienile e nella stalla: le deve parlarle dei maiali, e del fatto che in quel punto là, ancora sporco di una macchia indefinita, un giorno che i suoi si dimenticarono di appastare le bestie, i maiali finirono per cibarsi di uno di loro. Embè? Che ci azzecca, direbbe Di Pietro? Non lo so: è solo uno dei tanti episodi “Unheimlich”, come l’altalena nuova notata poco prima davanti a una casa abbandonata, in piena campagna deserta: che ci stava a fare? Boh, è tutto così gratuito… Forse il regista segue le “Strade perdute” di Linch. Una volta entrati in casa, la trovano (noi, la troviamo) ordinatissima, misteriosamente silenziosa, accogliente… se non incutesse ansia. Dei genitori di Jake, che Jake prova a chiamare ripetutamente, non c’è traccia: non danno segno. Lucy gironzola per la casa, nota che una porta è tutta profondamente graffiata e ne chiede a Jake il motivo, lui risponde: “È stato il nostro border collie… almeno in parte”. Almeno in parte? E in parte chi è stato? Il Babau? Ci si diverte a seminare inquietudine, ma davvero troppo gratuitamente. Sempre per aumentare il pathos, a Lucy che chiede dove porti una certa botola (dove vuoi che porti mai una botola sul pavimento, ricercatrice di fisica nucleare?) Jake risponde: “In cantina”. Non l’avrei mai detto. E aggiunge: “Non c’è niente in cantina, solo la lavatrice, gli sgomberi, è tutto spazio sprecato… Io odio la cantina”: così che anche il più inetto degli spettatori realizza che la cantina, ovvissimamente, è metafora dell’Inconscio. Se tanto mi dà tanto, al primo piano sta il Super-Io.
Finalmente i genitori di Jake si degnano di scendere (erano proprio su al primo piano del Super-Io). Paiono in gran contrasto con la casa che abitano, tutto sommato “colta”, come dicevo medio-borghese: sembrano proprio due citrulli, due poveri di spirito dediti a sgranocchiare pannocchie di granturco: che è quel che fanno. La mamma poi, interpretata da una straordinaria Toni Collette, è del tutto svampita e futile. Finalmente i quattro si mettono a tavola, una tavola riccamente imbandita; il pranzo si concluderà con un tronchetto al cacao, il “tronchetto di Natale”: “…Che anche se Natale è passato, ci sta sempre bene”, dirà più o meno la mamma. E così non ci viene risparmiato neanche il mito del Natale declinato in salsa yankee. A tavola l’attenzione è tutta rivolta a Lucy, che si sente impacciatissima, prigioniera, con un Jake che pare visibilmente scocciato dal poco tatto dei genitori verso Lucy. I vecchi chiedono a Lucy cosa faccia nella vita, e cosa le piace, viene fuori che tra le altre cose lei pittura, loro dicono: “Anche il nostro Jake, ed è molto bravo!”, il che poi parrebbe confermato dai fatti. Mentre però Jake si schernisce seccato, lei è costretta a mostrare le sue opere d’arte sul display del cellulare: ma prima tranquillizza il babbo, che non capisce la pittura astratta, dicendo che lei pittura sostanzialmente paesaggi, del che il vecchio è proprio contento, anche se poi, a proposito dei quadri che vedrà, osserverà: “Ma come si fa a dire che il tale paesaggio è bello, se nel quadro non c’è nemmeno una persona che lo possa dire? Insomma, siamo ai livelli dell’infantilismo spinto. Lucy mostra alcune immagini di “suoi” quadri… ma tra poco si saprà che, così come il brano recitato in macchina davanti a Jake non era roba sua, neanche quei quadri sono roba sua: sono pitture, tutto sommato abbastanza mediocri, quantomeno scontate nella tematica, di un tardo-romantico yankee: Ralph Albert Blackelock. Insomma, si cita, si copia, si spaccia, si camuffa: non si distingue più tra realtà e rappresentazione, tra fronzoli e fronzoli non si arriva al cuore del vero… e al cuore del film. E giù citazioni da parte di Jake su David Foster Wallace, la cui notorietà, osserva, per molti discende dall’essersi Wallace suicidato, più che da ciò che ha fatto e scritto. E giù citazioni da parte di Lucy a proposito di Guy Debord e della “società dello spettacolo”: così che siamo avvertiti: il film che stiamo vedendo diventa meta-film, meta-linguaggio.
Durante la visita ai genitori ne accadono di tutti i colori: Jake che finisce in cantina (ma non la odiava?) e non si capisce perché; Lucy che lo va a cercare lì (ma lui invece che laggiù in fondo, è ora improvvisamente in cima alla scala, in prossimità della botola, e la chiama perché lei risalga, con una voce che si percepisce appena: appare lontanissima e ovattata: siamo in un sogno?) si traccheggia nelle stanze dell’Inconscio, suo o di Jake ormai non si capisce, e così scopre alle pareti riproduzioni di paesaggi di Blackelock, libri della collana Rotten (Ossi di cane) e quant’altro al nostro novello Lynch passa per la crapa. Naturalmente non c’è niente da capire, solo da inquietarsi, o magari da annoiarsi. Lucy intanto di tutto questo non ne può più, proprio come me, e ripetutamente si rivolge a Jake perché la riporti a casa sua: domattina ha da lavorare, e la tormenta sta aumentando, dunque meglio sbrigarsi. Ma Jake se la prende comoda, anzi non risponde nemmeno. Allora Lucy lo va a cercare dove pare siano tutti spariti: nel Super-Io del primo piano: ma prima di salire lo avverte esplicitamente, lo allerta: “Guarda che sto salendo”. E cosa trova? Trova che il tempo, lo spazio-tempo, gioca brutti scherzi: e lei lo sa bene, conosce la teoria della relatività e i princìpi della fisica: lo aveva già rinfacciato a Jake durante il viaggio di andata. Ebbene: da una parte c’è un tuffo all’indietro, come in “Ritorno al futuro” di Zemeckis: “la camera di Jake da bambino”, con tanto di paginetta esplicativa appiccicata sulla porta, dall’altra un tuffo in avanti: i genitori di Jake improvvisamente vecchi decrepiti, irriconoscibili, come David Bowman in “2001 – Odissea nello spazio”: lui preso dalla demenza senile (non sta a sentire Lucy che le ripete che nel lettuccio di Jake ragazzino non ci dormirà: vuole tornare a casa sua, e le ripete che in quel letto comunque non potranno scopare, non ci entrano fisicamente), lei paralitica nel letto, imboccata amorevolmente da Jake.
Alla fine, faticosissimamente, estenuantemente, si riparte. Quale migliore occasione per parlare di Freud, del rapporto madre-figlio, delle colpe che facilmente i figli imputano ai loro genitori per il loro proprio essere, magari per la propria omosessualità? Sono tutti temi adattissimi ad un viaggio in mezzo a una tormenta polare. Ma il calvario (per noi, soprattutto) non è finito: anche durante il viaggio di ritorno ne succedono di tutte. In quella bella tormenta di neve, che quasi non si vede la strada, a Jake viene voglia di… mangiare un gelato! Va beh che siamo in America, ma insomma, se avesse detto un ponce alla livornese sarebbe stato più credibile. Ora, guarda caso, nel mezzo di quel deserto battuto da una bufera di neve, precisamente in mezzo al nulla, c’è un chiosco da gelataio! Jake si ferma, irritando ulteriormente Lucy, e va per chiedere due gelatoni in barattolo da una libbra, forse due, ma poi ci ripensa: chiede a Lucy di essere lei a presentarsi al chiosco, perché lui… E si capisce che Jake ha qualcosa da nascondere riguardo al chiosco, o meglio alle ragazze del chiosco: due delle quali, molto carine, molto bionde e molto anni Sessanta (rigorosamente in maniche corte in mezzo alla neve, tanto è tutta una finta) sorridono maliziosamente a Jake, provocandolo, mettendolo volutamente in imbarazzo, prendendolo in giro (lo fanno allontanare), mentre la terza, che ci fa sapere di essere appena stata sul retro a fare i suoi bisogni e che ha le mani sospettosamente sporche, è quella che spruzza nei bicchieroni i super-gelati super-dolci. Con frasi ambigue sussurra a Lucy che forse farebbe meglio a non andare, cerca di farle (farci) capire che potrebbero esserci dei pericoli, evidentemente da parte di Jake, la invita perfino a restare, se vuole. La ragazza ha la pelle piena di eruzioni cutanee, e Lucy chiederà a Jake se sa perché, e a me stesso chiedo: e a noi che ce ne frega?
È finita? Si torna a casa? Macché. Una volta ripartiti, c’è il problema che quei due gelatoni sono troppo grossi anche per due yankee: stanno lì e colano, e a Jake non piace l’idea che possano sporcare i sedili dell’auto. Secondo me potrebbero anche aprire il finestrino e frullarli nella tormenta, ma Jake e Lucy sono politically correct, quindi gli serve un contenitore. A Jake viene in mente che lì, magari a qualche decina di km, sempre necessariamente nel mezzo della notte cupa e in piena tormenta, dovrebbe esserci il liceo in cui ha trascorso tanti anni: che vuoi che sia, appena una deviazione, poi si torna indietro. E ci arrivano al liceo, e mentre lui scende per cercare un cassonetto, lei sbuffa che proprio non ne può più, ma Jake tarda come sempre, perché il cassonetto che ha trovato era già pieno e, meticoloso com’è, ne va a cercare un altro, a -30° circa, che vuoi che sia. Poi torna in macchina (finalmente!) e lei, pure lei si scongela un po’ e gli dà il primo e unico bacio in due ore e venti di film. A quel punto Jake si accorge, o crede di accorgersi, che qualcuno da una finestra (del liceo?) li stava osservando: il famoso guardone delle nevi. Lucy, sfinita, gli implora di sgommare, che è già tardi, ma Jake s’arrabbia, da buon americano batte i palmi sul volante, dice che lui “quello sguardo lo conosce”! Capirai, lo sguardo di una frazione di secondo, ma lui lo conosce. Imbufalito, riscende dall’auto e si dirige verso il liceo, scompare… Lucy lo aspetta inutilmente, poi spazientita scende, accosta la portiera, e questa chissà perché non si riapre più: automobile bloccata. “Merda! Merda!”, esclama. Scena dall’alto: lei poco più che un puntino in mezzo alla neve, un po’ come il piccolo Doc di “Shining”, vaga verso il liceo, che con i suoi corridoi è preciso preciso l’Overlook Hotel. Vi entra: è tutto illuminato, silenzioso, pulito, deserto: c’è solo un custode a pulire i pavimenti, che sono già pulitissimi: si tratta certamente Dick Halloran, quello con la “luccicanza”: non per niente alla fine della scena, come Halloran trova la morte in mezzo alla tempesta di neve: ha svolto il suo compito di Rna messaggero. Si susseguono fatti del tutto assurdi, compreso un improvviso balletto classico tra un lui (che poi finisce accoltellato) e una lei mai visti prima, e un maialone finto che sporca i pavimenti dei corridoi.
Finito? Non ancora. C’è la scena finale, super-grottesca, con i nostri protagonisti invecchiatissimi (e volutamente truccati da vecchi in maniera tale da vedere che sono truccati, cioè che non è realtà quella che vediamo, ma finzione), tutti riuniti intorno al nostro finalmente vecchio Jake, per via della storia dello spazio-tempo, coi capelli di stoppa, il quale si mette a concionare della sua vita, per quel che è stata, ma cantando: il finale del film è musical, ne sentivamo la mancanza, e tutti vissero felici e contenti.

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