marcoed93
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lunedì 26 marzo 2018
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the florida project e il vuoto delle promesse
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Trama
Parlare della trama ? ce la si può sbrigare facile; mi è sufficiente rimandare al commento reale di una signora prima del mio ingresso in sala : “non credo ti piacerà, è un film su una madre che fuma tutto il giorno e dei figli scoppiati che urlano e basta”. Sembra un po' superficiale no? Sfido chiunque a non pensarlo, salvo poi assistere alla proiezione e rendersi conto che non è solo il miglior riassunto che si possa fare della trama, ma la miglior descrizione della trama stessa, per intero.
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Trama
Parlare della trama ? ce la si può sbrigare facile; mi è sufficiente rimandare al commento reale di una signora prima del mio ingresso in sala : “non credo ti piacerà, è un film su una madre che fuma tutto il giorno e dei figli scoppiati che urlano e basta”. Sembra un po' superficiale no? Sfido chiunque a non pensarlo, salvo poi assistere alla proiezione e rendersi conto che non è solo il miglior riassunto che si possa fare della trama, ma la miglior descrizione della trama stessa, per intero.
Colorare il nulla
Quindi in fin dei conti avrei potuto essere totalmente d'accordo con quella signora, salvo una differenza di tono nell'accompagnare il commento, l'avessi fatto io; un tono che in lei era annoiato e ammonitorio, insomma, voleva dire che era una puttanata. mentre io potrei dire le stesse esatte parole con la stessa enfasi dei bambini che urlano per tutto il film; perché sono convinto che 130 anni di storia di cinema abbiano dimostrato che non deve sempre esserci bisogno di trama, di continue situazioni e intrecci e sopratutto di spiegazioni e logica. Sono convinto che si possa girare un film sul niente, fotografando il vuoto, colorando il nulla, per entrare in un piano comunicativo più alto, che utilizza il mezzo stesso per comunicare, attraverso inquadrature, fotografia e montaggio, ricreando quadri che parlano da soli.
Cos'è la Florida ?
Premettiamo comunque che aldilà del segone fatto sopra non si sta parlando di un film di Buñuel o di Bergman, si parla in realtà di un opera profondamente reale, quasi fotografica nella rappresentazione dell'immobilità del luogo e della vita che attraversano i protagonisti, con tutte le loro storie sopra le righe e le loro situazioni grottesche; e sono proprio loro, i protagonisti, ad essere l'elemento più reale del film : esseri erranti, sporchi, non necessariamente fotogenici, spesso insopportabili, illusi e nonostante tutto tenaci nel continuare a strisciare in mezzo al sudiciume delle loro condizioni. Il film non scrive dei protagonisti, li fotografa; per comunicare, forse, qualcosa di più grande, qualcosa che suggerisce il titolo stesso : “Un sogno chiamato florida” o “The Florida project”. Ma cos'è questo sogno, questo progetto ? è un entità : un ombra che aleggia a stretto contatto con i protagonisti, così vicina eppure così inafferrabile, è DISNEYWORLD.
Il sorriso beffardo
Disneyworld non è solo un luogo fisico, un castello delle favole; è un ideale, un sogno, la cartolina per chiunque immagini la Florida senza viverla; mentre chi la abita attraversa da sveglio il proprio sogno, passeggiando tra enormi negozi ed edifici chiamati “regno, castello magico, mondo, dono”, all'ombra di una gigantesca insegna con un mago sorridente e il suo sorriso beffardo, non riuscendo a percepire il tranello : quel sogno è solo una pubblicità.
Eppure, in tutto questo contesto la critica (se esiste), non è la solita minestra riscaldata sul diavolo consumista, perché le ambizioni dei protagonisti sono in realtà gli unici squarci di serenità : vestiti nuovi, tv, cibo, un gelato. L'errore per una volta non è del desiderio plastico, organico, ma del mondo; e della sua promessa che va aldilà di quello che può davvero offrire.
Il finale
Tra quelli che vedranno il film sarà un finale (intendo sopratutto l'ultima scena) discusso : spiazzante per alcuni, strano per altri, una merda per molti. Arrivi a quel punto e ti aspetti nonostante tutto che succeda qualcosa che tutti vorrebbero a livello narrativo, tipo un colpo di scena. In realtà è un ottima conclusione, che con uno stile ipercinetico (che riprende quello di alcune sequenze di Tangerine, precedente lavoro del regista) non dà né una precisa idea di dramma, ne una precisa idea di ironia; è un po' la fusione di entrambe, in una fuga che nel momento peggiore è l'unica possibile.
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[+] il potere della meraviglia che abita l'infanzia
(di antoniomontefalcone)
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vanessa zarastro
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sabato 24 marzo 2018
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peanuts all’inferno
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Il film rappresenta il mondo attuale visto attraverso gli occhi dei bambini. Questa operazione ricorda i pionieri del cinema e i grandi scrittori; ad esempio D.W. Griffith quando girava in esterno portava sempre con sé una copia di “David Copperfield” di Charles Dickens. Ma ricorda anche il mondo di Charles M. Schulz con “Peanuts”, solo che lì erano bravi bambini della middle-class negli anni del boom economico, ognuno con le sue nevrosi (c’era l’esplosione della psicoanalisi nel mondo occidentale) nel quartiere di Charlie Brown negli anni ‘60. Lì però l’habitat suburbano era tutto sintetizzato da pochi elementi: il dosso del baseball, la cuccia di Snoopy, il banchetto da psicoanalista di Lucy, il pianoforte di Shröder e così via.
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Il film rappresenta il mondo attuale visto attraverso gli occhi dei bambini. Questa operazione ricorda i pionieri del cinema e i grandi scrittori; ad esempio D.W. Griffith quando girava in esterno portava sempre con sé una copia di “David Copperfield” di Charles Dickens. Ma ricorda anche il mondo di Charles M. Schulz con “Peanuts”, solo che lì erano bravi bambini della middle-class negli anni del boom economico, ognuno con le sue nevrosi (c’era l’esplosione della psicoanalisi nel mondo occidentale) nel quartiere di Charlie Brown negli anni ‘60. Lì però l’habitat suburbano era tutto sintetizzato da pochi elementi: il dosso del baseball, la cuccia di Snoopy, il banchetto da psicoanalista di Lucy, il pianoforte di Shröder e così via. Il punto di vista era sempre ad altezza di bambino. Qui in The Florid Project - in originale – i bambini sono figli di under lumpen, di misfits, di drop-out, di sfigati che si arrabattano, in una realtà degradata, per mettere insieme quattro soldi. Donne tatuate, piercing ovunque, canne a gogo, o fanno le cameriere o rubacchiano oppure si prostituiscono saltuariamente per riuscire a pagare l’affitto nella casa-albergo color lilla, il Magic-Castle, Inn & Suites.
Siamo in Florida vicino ai parchi tematici di Disneyword Orlando, il cui primo insediamento è del 1971, secondo solo a Disneyland Los Angeles che è del 1955. È estate e Moonee, una ragazzina pestifera di sei anni figlia di Halley, trascina i suoi amichetti Scooty, Dicky e Jancey, in una serie di bravate combinando un disastro dopo l’altro: una serie di canaglie odierne. Il manager Bobby, ma anche handy-man dell’Hotel, è interpretato magistralmente da Willem Dafoe, che tra il rigore e il permissivismo cerca di aiutare, per quanto gli è possibile, questa sfortunata umanità.
Tipico del mondo di Sean Baker è mettere in scena la marginalità, così come ha fatto nei film precedenti, in Tangerine del 2015 e in Starlet del 2012. In Un sogno chiamato Florida, sono rappresentate o madri single, o nonne che tengono i nipotini, o padri single: sembra che la coppia sia un istituzione desueta. L’uso di persone prese dalla strada (o da istagram) integra quello degli attori principali e ha fatto associare il film da alcuni critici al neo-realismo. Ma a mio avviso lo stile del film è più iperrealista, nel colore delle case abbandonate ricorda la città di Edward Mani di Forbice di Tim Burton, nello straniamento delle inquadrature, nell’indugiare sullo squallore dell’area con i suoi chioschi e di alcune immagini surreali come il continuo sorvolare di elicotteri su un prato incolto, nelle improvvise piogge tropicali e nei soggetti anche banali di vita quotidiana. L'iperrealismo si era manifestato come corrente artistica alla fine degli anni Sessanta negli Stati Uniti. Nell'universo iperrealista, come in quello di Wenders, convergono figure oggettuali, mezzi di comunicazione e paesaggi urbani in cui la macchina da presa si muove tra scene di vita e situazioni metropolitane senza dare giudizi, semplicemente registrando ed indugiando in lunghe carrellate su oggetti, insegne e situazioni urbane degradate con uno stile supervisivo e anaffettivo. Elementi essenziali del linguaggio figurativo iperrealista, sia in pittura sia in cinematografia, sono un'osservazione fotografica dell'oggetto, uno stile freddo e il più possibile oggettivo, una grande attenzione ai dettagli, un assoluto distacco psicologico dall'oggetto con la conseguente eliminazione delle scelte personali e soggettive, un'impressione complessiva di una specie di “presenza dell'assenza”.
Un sogno chiamato Florida è stato presentato alla Quinzaine di Cannes del 2017 e all’ultimo Torino Film Festival.
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(di mitchell71)
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fabiofeli
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sabato 31 marzo 2018
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"non riesco a dirlo! ..."
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Il Magic Castle Inn è un residence dipinto in un incredibile rosa confetto, a due passi da Orlando (Florida) dove si trova Disney World. Bobby (Willem Dafoe) è il factotum-sorvegliante che fatica a riscuotere le pigioni; ripristina la linea elettrica quando cade, pulisce la piscina e controlla che nessuno importuni con malefiche intenzioni i bambini che giocano. Tollera Moonee (Brooklynn Prince) e Scotty (Christopher Rivera), bambini che inventano giochi fantasiosi per uccidere la noia di pigre giornate estive; non si lamenta più di tanto per un pesce morto in piscina – “Era un esperimento per farlo resuscitare”, spiega la sorridente Moonee -, né se lo prendono in giro mentre cerca di far coprire l’esagerato seno di una anziana signora o se vede con la telecamera che i bimbi si introducono in altri appartamenti.
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Il Magic Castle Inn è un residence dipinto in un incredibile rosa confetto, a due passi da Orlando (Florida) dove si trova Disney World. Bobby (Willem Dafoe) è il factotum-sorvegliante che fatica a riscuotere le pigioni; ripristina la linea elettrica quando cade, pulisce la piscina e controlla che nessuno importuni con malefiche intenzioni i bambini che giocano. Tollera Moonee (Brooklynn Prince) e Scotty (Christopher Rivera), bambini che inventano giochi fantasiosi per uccidere la noia di pigre giornate estive; non si lamenta più di tanto per un pesce morto in piscina – “Era un esperimento per farlo resuscitare”, spiega la sorridente Moonee -, né se lo prendono in giro mentre cerca di far coprire l’esagerato seno di una anziana signora o se vede con la telecamera che i bimbi si introducono in altri appartamenti. Qualcosa i piccoli devono pur fare: magari per ammazzare il tempo basta una gara di sputi sul parabrezza dell’auto di una famiglia appena arrivata; tanto dopo le lagnanze della proprietaria ripuliscono il parabrezza, ed hanno l’occasione per conoscere la nipotina della signora, Jancey (Valeria Cotto), cooptata subito nella piccola banda. Il rumore martellante degli elicotteri che sorvolano la zona è accolto con ampi gesti del dito medio sollevato: i ricconi a bordo neanche si accorgono della miseria lì sotto e di sicuro non interessa loro. Halley (Bria Vinaite), la giovanissima madre di Moonee, si arrabatta per sbarcare il lunario: è sempre in ritardo sul pagamento settimanale; racimola qualche spicciolo vendendo profumi acquistati a basso prezzo in un supermercato; a volte si prostituisce per derubare i clienti; in fondo è una copia di Moonee cresciuta che già sa che la vita non le riserva più nulla di buono e subisce quello che arriva giorno dopo giorno. Il guaio che combinano Moonee e Scooty, dando fuoco a un villaggio abbandonato vicino al residence, annuncia situazioni ben peggiori: i servizi sociali intervengono e a Moonee non resta che correre disperata da Jancey. Convulsamente balbetta: “Non riesco a dirlo! …”. Ma Jancey sembra sapere cosa fare …
Un film descrive la profonda estraneità, la frattura tra chi ha molto denaro e chi non ha nulla nel profondo sud degli USA. La Florida per molti americani è un sogno, ma il riflesso che appare in questo specchio è un incubo. I primi a soffrirne sono i bambini, perché il Paese è peggiore di quello dei fratelli Cohen che ammonivano che “non è un paese per vecchi”. Bambini poveri e diseredati sono le prime vittime di un mondo finto come Disney World, un inganno amaro e bugiardo, che nasconde una vita che può cominciare in case di correzione, preludio alla probabile galera e/o ad una morte violenta. Nessuna speranza di una vita “normale”, pur se drogata e anestetizzata dalla tv. Non serve a nulla sollevare il dito medio per rifarsi come non serve sfuggire ai servizi sociali che rappresentano una legge senza nessuna indulgenza. L’uso della cinepresa è ottimo: il film tocca il cuore con attori tutti “presi dalla strada” eccetto l’impeccabile e umano Dafoe. I bambini urlano per l’eccitazione, come personaggi di un cartone animato, ma la loro gioia è povera cosa. Verrebbe da citare il neorealismo dei film di De Sica (Ladri di biciclette, Sciuscià) nei quali i piccoli, “presi dalla strada”, sono alla prima esperienza di recitazione, ma le realtà nelle quali sono calate le miserevoli storie sono profondamente diverse, lontane nel tempo e nello spazio. Più ragionevole, ci sembra, accostare il film alle prime opere di registi europei ambientate negli USA, per il modo straniato e disincantato di vedere e fotografare la realtà americana lasciando qualsiasi giudizio e valutazione a chi osserva. Le convulse scene finali con il montaggio serrato in crescendo drammatico sono da manuale e da sole valgono l’intero film. Da non mancare.
Valutazione ****
FabioFeli
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freerider
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sabato 24 marzo 2018
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non un autentico outsider
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Non mi sento di esprimere un giudizio del tutto negativo ma non posso fare mistero del fatto che il film non mi ha entusiasmato.
Ambientazione periferica, situazioni di marginalità, colori ipersaturi e molta camera a mano ci portano dalle parti di molto cinema indipendente made in US che attraverso la riduzione delle elaborazioni narrative e formali mira ad avvicinarsi alla realtà in maniera poco o per nulla mediata. A dire il vero, per essere un progetto che ambisce ad essere un tale tipo di outsider, The Florida Project appare fin troppo attento a non oltrepassare i limiti del presentabile, in fondo i suoi personaggi non arrivano mai ad essere realmente disturbanti né a farci stare veramente male, vivono alla giornata muovendosi in un caos ipercinetico ma sembrano costantemente sospinti da uno sguardo indulgente che tende a ricomporre ogni intemperanza nell'ambito del perdonabile, salvo poi assumere una posizione moralmente giudicante nei confronti del "cliente" con famiglia.
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Non mi sento di esprimere un giudizio del tutto negativo ma non posso fare mistero del fatto che il film non mi ha entusiasmato.
Ambientazione periferica, situazioni di marginalità, colori ipersaturi e molta camera a mano ci portano dalle parti di molto cinema indipendente made in US che attraverso la riduzione delle elaborazioni narrative e formali mira ad avvicinarsi alla realtà in maniera poco o per nulla mediata. A dire il vero, per essere un progetto che ambisce ad essere un tale tipo di outsider, The Florida Project appare fin troppo attento a non oltrepassare i limiti del presentabile, in fondo i suoi personaggi non arrivano mai ad essere realmente disturbanti né a farci stare veramente male, vivono alla giornata muovendosi in un caos ipercinetico ma sembrano costantemente sospinti da uno sguardo indulgente che tende a ricomporre ogni intemperanza nell'ambito del perdonabile, salvo poi assumere una posizione moralmente giudicante nei confronti del "cliente" con famiglia...
Nulla di male nel voler stare dalla parte dei protagonisti (anche se il più difficile e interessante dei registri rimane quello del totale distacco), ma diciamo per onestà che i ragazzini perduti di Harmony Korine - se mai volessimo fare un paragone azzardato - rimangono, per potenza e coraggio, a distanza di anni luce da queste più recenti pesti scatenate che invece non lasciano mai trasparire segni di reale disagio, anzi, sembrano diretti con la chiara missione di trasmettere un continuo messaggio di allegria e libertà nonostante la situazione di totale precarietà e destrutturazione. I bambini sono chiaramente il perno del film e anche nei loro confronti si è optato per una rappresentazione di compromesso: se è vero che si tratta di un'infanzia lontana dal modello hollywoodiano, è anche vero che la simpatica sfacciataggine della piccola Moonee e dei suoi amichetti sembra in qualche modo esibita, forse uno sguardo più naturalista avrebbe lasciato maggiore respiro ai giovani interpreti concedendo loro anche qualche momento descrittivo di silenzio o di inattività, tipico dell'infanzia, invece di finalizzare ogni inquadratura saturandola con schiamazzi e dialoghi a volte scritti in chiara funzione dell'effetto sul pubblico. In questa luce colpisce anche il fatto che, oltre a non esserci una reale progressione nelle vicende narrate, la prima e unica volta in cui vediamo Moonee affranta è nel momento in cui intervengono gli assistenti sociali, sottolineatura che se da un lato può essere umanamente plausibile dall'altro scopre un certo atteggiamento "a tesi" del film che lo rende piuttosto scontato e che fa il paio con la lapalissiana simbologia per contrasto insita nell'ambientazione limitrofa a Disneyland.
Regia corretta, scena finale soffocata da musica enfatica e oltremodo invadente. Buona la prova di Willem Dafoe, nei panni del personaggio che tiene insieme il film, mentre Bria Vinaite con la sigaretta sempre tra le dita si impegna per infondere rabbia e amarezza alla figura della giovane madre single senza forse riuscirci fino in fondo.
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zarar
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giovedì 29 marzo 2018
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dov'è il sogno?
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Un bel film sulla vitalità, la capacità di adattamento e la resilienza dei bambini anche in situazioni che a noi appaiono senza orizzonti e senza speranza. Un affetto, un grande margine di libertà e la felice complicità di uno o più amici possono creare un miracoloso equilibrio (finché dura). Mooneee Halley, la sua sbandata, graziosa, squattrinata mamma-ragazzina, tutta tatuaggi, magliette aderenti e minishort, passano l’estate in un motel di quart’ordine rosa confetto ai margini del gigantesco Disney World Resort, che si staglia sullo sfondo con il suo grande ingresso in forma di castello delle fate. Un mondo di sogni di cartapesta per turisti che si prolunga all’esterno in un composito mix tutto americano: grandi alberghi poco lontano da squallidi motel, giganteschi negozi di souvenir e anonimi cubi di cartongesso per fast food, edifici di lusso e case a schiera abbandonate in rovina, prati verdi pettinati accanto a terreni incolti, solcati da grandi strade che sembrano venire dal nulla e andare verso il nulla.
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Un bel film sulla vitalità, la capacità di adattamento e la resilienza dei bambini anche in situazioni che a noi appaiono senza orizzonti e senza speranza. Un affetto, un grande margine di libertà e la felice complicità di uno o più amici possono creare un miracoloso equilibrio (finché dura). Mooneee Halley, la sua sbandata, graziosa, squattrinata mamma-ragazzina, tutta tatuaggi, magliette aderenti e minishort, passano l’estate in un motel di quart’ordine rosa confetto ai margini del gigantesco Disney World Resort, che si staglia sullo sfondo con il suo grande ingresso in forma di castello delle fate. Un mondo di sogni di cartapesta per turisti che si prolunga all’esterno in un composito mix tutto americano: grandi alberghi poco lontano da squallidi motel, giganteschi negozi di souvenir e anonimi cubi di cartongesso per fast food, edifici di lusso e case a schiera abbandonate in rovina, prati verdi pettinati accanto a terreni incolti, solcati da grandi strade che sembrano venire dal nulla e andare verso il nulla. Un angolo d’America di cartapesta, in cui turisti ricchi sono di passaggio, mentre figure marginali cercano in squallidi motel una residenza che li sottragga almeno temporaneamente ad una condizione di homeless. Halley non ha nulla di una persona adulta e responsabile, vive di espedienti ai margini della legalità e – messa alle strette dal bisogno - finisce anche per prostituirsi. Ma, sfrontata e irresponsabile com’è, resta una mamma affettuosa per Moonee, anche se non fa molto per cambiare, e, data la sua situazione, è in perenne allarme nella prospettiva che i servizi sociali possano allontanarla da lei. E dunque Moonee, sei anni o giù di lì, non è una bambina infelice. E’ lei, fantasiosa, audace , spericolata, curiosa, sfrontata e sempre pronta a ricominciare, l’eroina di questo film. Si muove con sicurezza in quel mondo di innaturali colori pastello, di kitsch teatrale, appendice povera ai margini del resort Disney in cui non avrebbe mai i soldi per entrare. Si è fatta piccoli amici e – libera come l’aria - parte con loro ogni mattina per un’avventura nuova, possibilmente pericolosa, gesti di sfida, birbonate piccole e grandi, attraverso le quali trasforma in un grande gioco lo squallore che la circonda. Erede di tanti personaggi bambini, letterari e non, che le somigliano, Moonee riesce miracolosamente a vivere la sua infanzia ed è lo spettatore a soffrire, perché tutto intorno a lei cospira a rendere disperata la sua impresa. La stessa consapevolezza che ha Bobby, il manager del motel, altro personaggio-chiave del film. Willem Dafoe disegna questo ruolo con grande intensità. Bobby è spicciativo, burbero e silenzioso, però osserva, comprende, e nasconde male dietro ad un viso segnato e apparentemente impassibile l’amarezza che la povera umanità che ha davanti gli ispira. Non aspettatevi un lieto fine, anzi, non aspettatevi una fine tout court. I personaggi ci coinvolgono, ma quello di cui si sente un po’ la mancanza - anche se forse è proprio ciò che il regista vuole - è il climax di una ‘storia’ che si sviluppa e si compie. Il film può contare tuttavia su ottime interpretazioni, prima fra tutti quella di una straordinaria Brooklyn Princenel ruolo di Moonee, su un felice contrasto di caratteri e su uno studio estremamente efficace dell’inquadratura, del colore, del gioco tra primi piani e sfondo che tutti insieme disegnano spietatamente la triste America del regista Baker. Tre stelle e mezzo.
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goldy
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domenica 25 marzo 2018
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l'altra faccia dell'america
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La povertà non è tutta uguale ma tra le esistenti quella americana è la più riprovevole. Perché voluta, perché creata da un sistema economico sostenuto da leggi inaccettabili. Il tenace rifiuto a una qualsiasi proposta di welfare che invece caratterizza l’Europa, si fonda sulla convinzione che è il singolo che deve fare ricorso alle proprie risorse nel costruire il proprio destino in linea con la tradizione degli uomini che hanno conquistato il West e su questa convinzione si basa anche la difesa del possesso delle armi. .
Parlare di povertà diffusa nel paese più ricco del mondo ha davvero dell’incredibile e solo chi ha attraversato gli Stati Uniti la scopre con sgomento.
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La povertà non è tutta uguale ma tra le esistenti quella americana è la più riprovevole. Perché voluta, perché creata da un sistema economico sostenuto da leggi inaccettabili. Il tenace rifiuto a una qualsiasi proposta di welfare che invece caratterizza l’Europa, si fonda sulla convinzione che è il singolo che deve fare ricorso alle proprie risorse nel costruire il proprio destino in linea con la tradizione degli uomini che hanno conquistato il West e su questa convinzione si basa anche la difesa del possesso delle armi. .
Parlare di povertà diffusa nel paese più ricco del mondo ha davvero dell’incredibile e solo chi ha attraversato gli Stati Uniti la scopre con sgomento. Il cinema di Hollywood infatti se ne è sempre ben guardato dal dare spazio a problematiche sociali che affliggono il paese preferendo storie edificanti con inevitabile happy end. .E’ infatti un regista indipendente quello che ci propone il primo film che descrive la desolante condizione nella quale vivono più di 4 milioni di famiglie senza padri.
Una società, quella americana che crea sacche di povertà e, miseria morale a cui è sicuramente impedita qualsiasi via di fuga e di riscatto.
LaFlorida è per gli americani la terra promessa dove recarsi per godere del clima mite e per l’immaginario favolistico creato dai temi della Disney, mpensabile quindi ambientare il tema del degrado e della povertà in questo luogo fatato. Ed è invece proprio lì che il regista intende tirare il suo pugno allo stomaco alla pingue quanto immutabile borghesia USA. E lo fa con leggerezza ricorrendo al punto di vista dei bambini.
Senza riferimenti familiari positivi, lasciati liberi di scorazzare in assoluta libertà danno sfogo a tutte le loro fantasie di gioco quasi tutte riprovevoli. Senza una guida che ne fissi i limiti cresceranno perpetuando comportamenti difficili da sradicare e che li condannano a vite senza via di fuga e di riscatto. Così la libertà meravigliosa di cui godono che potrebbe rappresentare un’alternativa ai bambini cresciuti nelle nostre città modello “polli di allevamento” si trasforma in uno stile anarchico che li porterà sicuramente a sbattere. E qui si tratta dei loro bambini bianchi nati negli States, non neri o latinos, a essere oppressi da un sistema che crea povertà inconsulta. Il regista non da soluzioni, punta solo il dito e parla soprattutto ai propri connazionali confezionando un film di facile lettura e inequivocabile comprensibilità. La rabbia montante e il tasso di indignazione non diminuiscono grazie a un ambiente punteggiato da architetture sognanti e la disperazione per la sorte di Mooney e degli altri compagni di gioco ha il sopravvento. IL senso di impotenza per l’impossibilità di intravedere una speranza è definitiva e la certezza di assistere a una situazione così disperata non lascia spazio per apprezzamenti di tipo estetico.
Solo il manager dello squallido Motel, Daniel Dafoe oppone una fragile barriera al cinismo cieco e sordo di stato che ancora conserva un sentire empatico che stranamente non si è cancellato in lui. Un filo di speranza per un' America che ha bisogno di uscire da una paralisi centenaria non solo per il benessere dei propri cittadini ma per il mondo intero.
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(di mitchell71)
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(di goldy)
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tmpsvita
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venerdì 30 marzo 2018
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una vita difficile negli di un bambino
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È difficile riuscire a spiegare con le parole cosa questo "The Florida Project" faccia provare allo spettatore anche perché è difficile riuscire ad identificare e riconoscere immediatamente queste emozioni.
In anzitutto si tratta di un film visivamente bellissimo, grazie alla splendida fotografia ingiustamente snobbata agli Oscar di questo anno, i suoi colori estremamente vivi, forti, innaturali, accesi raffigurano il tutto come se si trattasse di un sogno, di un cartone animato, proprio come un bambino, con la sua estrema fantasia e la sua irrefrenabile voglia di giocare e vivere, vede il mondo, bello o brutto che sia, circostante.
E questa sensazione di sentirsi bambino e di provare le emozioni che un bambino proverebbe, se fosse il protagonista di tutti gli eventi narrati in questo film, la si prova in ogni istante grazie ad una regia molto intelligente e capace che buona parte delle riprese le gira dal punto di vista di un bambino, quindi con inquadrature relativamente basse proprio ad altezza bambino; ma soprattutto grazie alla straordinaria sceneggiatura che, oltre ad essere molto originale, è anche perfettamente credibile: ogni battuta, dialogo che viene pronunciato da un bambino, quindi la maggior parte di essi, è così naturale da sembrare quasi improvvisati, perché un bambino non avrebbe mai potuto dirli diversamente e non si sarebbe mai comportato ed atteggiato diversamente da come i piccoli protagonisti fanno in questo film; inoltre ogni personaggio viene caratterizzato in maniera impeccabile, tanto che lo spettatore riesce ad immedesimarsi totalmente in ognuno di essi.
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È difficile riuscire a spiegare con le parole cosa questo "The Florida Project" faccia provare allo spettatore anche perché è difficile riuscire ad identificare e riconoscere immediatamente queste emozioni.
In anzitutto si tratta di un film visivamente bellissimo, grazie alla splendida fotografia ingiustamente snobbata agli Oscar di questo anno, i suoi colori estremamente vivi, forti, innaturali, accesi raffigurano il tutto come se si trattasse di un sogno, di un cartone animato, proprio come un bambino, con la sua estrema fantasia e la sua irrefrenabile voglia di giocare e vivere, vede il mondo, bello o brutto che sia, circostante.
E questa sensazione di sentirsi bambino e di provare le emozioni che un bambino proverebbe, se fosse il protagonista di tutti gli eventi narrati in questo film, la si prova in ogni istante grazie ad una regia molto intelligente e capace che buona parte delle riprese le gira dal punto di vista di un bambino, quindi con inquadrature relativamente basse proprio ad altezza bambino; ma soprattutto grazie alla straordinaria sceneggiatura che, oltre ad essere molto originale, è anche perfettamente credibile: ogni battuta, dialogo che viene pronunciato da un bambino, quindi la maggior parte di essi, è così naturale da sembrare quasi improvvisati, perché un bambino non avrebbe mai potuto dirli diversamente e non si sarebbe mai comportato ed atteggiato diversamente da come i piccoli protagonisti fanno in questo film; inoltre ogni personaggio viene caratterizzato in maniera impeccabile, tanto che lo spettatore riesce ad immedesimarsi totalmente in ognuno di essi.
Questo risultato è merito anche delle splendide interpretazioni dei succitati, soprattutto quella della giovane, anzi giovanissima protagonista Brooklynn Prince, che ha saputo dare prova del suo grande talento nonostante la sua età.
Bravissimo anche Willem Dafoe che con questo film si aggiudica la sua terza nomination agli Oscar, dopo quella del 2001 e quella del 1987.
Il film si conclude con un finale veramente particolarmente che mi aveva un po' disorientato all'inizio ma, dopo averci riflettuto un attimo durante i titoli di coda, non posso che definirlo un finale perfetto.
Insomma la A24 continua a sfornare ottimi film, talvolta dei veri e propri capolavori, e dopo questo ed altri che rientrano tra i migliori film di quest'anno (2017) non ha fatto altro che confermare la sua qualità e disponibilità verso film che altrimenti non vedrebbero mai la luce, spero che continui su questa strada, quella giusta.
Voto: 8,5/10
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udiego
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domenica 1 aprile 2018
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la florida dietro l'angolo
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Un sogno chiamato Florida, diretto dal regista indipendente Sean Baker, ci mostra lo spaccato di vita di alcune famiglie in una zona di periferia della Florida. Non troppo lontano dai grandi parchi di divertimento che caratterizzano quella parte degli Stati Uniti, ma immensamente distante dal punto di vista economico e sociale. Il tutto è rappresentato dal punto di vista dei bambini, che sono inconsapevoli, per via dell’età, della loro condizione di vita e vivono tutto come se fosse una grande avventura, sentendosi liberi di fare ciò che più li diverte e senza preoccuparsi delle conseguenze.
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Un sogno chiamato Florida, diretto dal regista indipendente Sean Baker, ci mostra lo spaccato di vita di alcune famiglie in una zona di periferia della Florida. Non troppo lontano dai grandi parchi di divertimento che caratterizzano quella parte degli Stati Uniti, ma immensamente distante dal punto di vista economico e sociale. Il tutto è rappresentato dal punto di vista dei bambini, che sono inconsapevoli, per via dell’età, della loro condizione di vita e vivono tutto come se fosse una grande avventura, sentendosi liberi di fare ciò che più li diverte e senza preoccuparsi delle conseguenze.
Non c’è melodramma nel film di Baker, che si è occupato anche della sceneggiatura in collaborazione con Chris Berghoc. Lo stile narrativo si mantiene su livelli leggeri, non mancando di inserire anche qualche situazione davvero spassosa, che permette di strappare più di qualche sorriso al pubblico. L’opera si sviluppa principalmente mettendo in contrasto le vite dei suoi protagonisti, fatte di difficoltà, degrado ed emarginazione, al contesto che sta loro intorno: un contesto di benessere, divertimento e piacere. Lo squallore delle vite dei protagonisti è contrapposto alla vivacità dei colori delle immagini: la distanza tra la periferia e il centro della vita è di solo qualche passo, ma l’abisso tra queste due realtà è del tutto incolmabile.
L’opera funziona anche grazie ad un impianto cinematografico ben riuscito. Regia e montaggio sono costruiti su misura dei tre protagonisti più piccoli e questo permette al lavoro di essere sempre gradevole e mai troppo pesante. Di buon livello anche la prova degli attori, con un William Dafoe bravo e capace nel rappresentare il personaggio con forse più umanità di tutta la vicenda, ed il resto del cast, ai più del tutto sconosciuto, che regala un performance pulita, credibile e mai sopra le righe.
Un sogno chiamato Florida è un film che trasmette energia e che regala sentimenti, che fa sorridere, ma che fa anche riflettere. Ci racconta un mondo ai margini, chiuso dentro ai propri confini, un mondo che a volte preferiamo non vedere. Un mondo fatto di persone, alcune più forti, che provano a combattere, altre più deboli, che cercano la scappatoia più semplice pur di tirare avanti.
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robert de nirog
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giovedì 5 novembre 2020
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a due passi dal paradiso
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Consigliato: a chi ha a cuore le tematiche degli emarginati nei sobborghi USA e ai piacevoli ritmi lenti del cinema indipendente americano. Sconsigliato: agli amanti dei film di Hollywood.
Sinossi : A qualche miglia da Disneyworld sorgono dei coloratissimi residence per turisti. La crisi o forse calcoli sbagliati li hanno svuotati costringendoli a riadattarsi come motel a basso costo per emarginati e persone e famiglie che con difficoltà sbarcano il lunario. Qui si svolgono le avventure di Moonee, una bambina che vive assieme alla mamma in una di queste colorate stanze e che gironzola nelle soleggiate giornate estive con i suoi compari di marachelle. Non è un ambiente facile. La madre si arrangia per pagare la pigione, anche prostituendosi.
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Consigliato: a chi ha a cuore le tematiche degli emarginati nei sobborghi USA e ai piacevoli ritmi lenti del cinema indipendente americano. Sconsigliato: agli amanti dei film di Hollywood.
Sinossi : A qualche miglia da Disneyworld sorgono dei coloratissimi residence per turisti. La crisi o forse calcoli sbagliati li hanno svuotati costringendoli a riadattarsi come motel a basso costo per emarginati e persone e famiglie che con difficoltà sbarcano il lunario. Qui si svolgono le avventure di Moonee, una bambina che vive assieme alla mamma in una di queste colorate stanze e che gironzola nelle soleggiate giornate estive con i suoi compari di marachelle. Non è un ambiente facile. La madre si arrangia per pagare la pigione, anche prostituendosi. Unica figura quasi paterna e matura è il manager del residence Bobby interpretato da un Defoe in gran forma. La sinossi è tutta qui. FIno al finale.
Giudizio: è una ottima regia quella di Baker. Il film scorre senza sussulti e colpi di scena come lenta e uguale a se stessa è la vita degli abitanti dei residence colorati fuori dalla portata di Disneyworld. La fotografia è piacevole ed elegante. I colori pastello accompagnano lo sfondo di tutto il film. Ma non c'è niente di mieloso e felice per i protagonisti. Dal parco arrivano solo gli echi lontani. L'elicottero per i giri dei ricchi. Agli emarginati restano le briciole. Ai bimbi, di questo residence, il famoso parco, pur vicino, è precluso. Il loro safari sono le vacche in una fattoria li vicina. Il loro gelato è fornito da un triste chiosco e la giostra della casa degli orrori non è altro che un complesso di condomini disabitati. Non c'è spazio per loro. Sono tagliati fuori dal luccicchio che solo ad alcuni la vita riserva. Che brava è la giovane attrice che interpreta la protagonista (Brooklin Prince) ma non da meno sono i suoi piccoli colleghi, bravi davvero. Come molti hanno detto Defoe è impeccabile, una super prestazione che tiene su la trama che non spicca per sussulti improvvisi. Perchè non è la trama il centro della pellicola. Il baricentro è il finale. Li sta il grido. E la potenza della pellicola. Alla fine lo spettatore riflette. E questo per un film ben fatto è un ulteriore motivo di orgoglio.
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marcobrenni
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sabato 13 ottobre 2018
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questo non è un paese per bambini
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Se non fosse per qualche ridondanza, l'avrei definito un vero capolavoro: impianto scenico, scenggiatura, attori - bambini compresi - sono da eccellenza. All'inizio sembra un banale film per giovani madri alle prese con delizie, dolori e doveri verso la prole. Ma poi si intravvede presto dove vuole parare l'autore: è una denuncia tragicomica (!) di certa realtà postmoderna americana (e non solo) ove in una ambiente apparentemente sereno e coloratissimo, sito in prossimità di Disneyland, si narra la vicenda di una famigliola disfunzionale composta da una mamma sola con prole che vive di espedienti. Nulla si sa perché si trovi in simili condizioni : riflette una realtà non rara, ove una madre per vicissitudini varie si trova con prole, senza compagno, a vivere di precariato.
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Se non fosse per qualche ridondanza, l'avrei definito un vero capolavoro: impianto scenico, scenggiatura, attori - bambini compresi - sono da eccellenza. All'inizio sembra un banale film per giovani madri alle prese con delizie, dolori e doveri verso la prole. Ma poi si intravvede presto dove vuole parare l'autore: è una denuncia tragicomica (!) di certa realtà postmoderna americana (e non solo) ove in una ambiente apparentemente sereno e coloratissimo, sito in prossimità di Disneyland, si narra la vicenda di una famigliola disfunzionale composta da una mamma sola con prole che vive di espedienti. Nulla si sa perché si trovi in simili condizioni : riflette una realtà non rara, ove una madre per vicissitudini varie si trova con prole, senza compagno, a vivere di precariato. Qui in un improbabile motel d'una Florida in apparenza prospera e serena, ma che cela pure insospettati gravi casi sociali. Tutto è precario: cibo e affitto settimanale che viene racimolato di volta in volta da questa mamma un po' svitata- alternativa-sboccata che con le carabattole per strada, vende pure il proprio corpo. Lotta col custode del motel che appare severo ma cela un animo generoso, pronto a tollerare le zingarate che di continuo combinano i pestiferi bimbi Moonee e Scotty. È persino disposto ad anticipare una rata d'affitto, pur di evitare lo sfratto della disastrata famigliola. Salta all'occhio che tutti i motel nel vicinato recano colori vistosi e sono pure ben tenuti, in perfetto accordo col vicino coloratissimo parco Disneyland simbolo del kitsch USA più sfrenato. Insomma: un ambiente falsamente sereno, persino con parchi e mucche al pascolo, ma pure disturbato da enorme e pericoloso traffico di transito e dal continuo volo di fastidiosi elicotteri che portano qualche utente benestante. Un atmosfera di benessere alquanto surreale che stona con la tragicità di casi sociali che solitamente siamo abituati a vedere nei rovinosi bassifondi metropolitani, ma non certo qui! Sul finale il film incalza con metafore tragicomiche che culminano con l'esautorazione della madre da parte delle autorità sociali per comportamento manifestamente inadegauto (prostituzione, droga, furti): si prospetta di collocare la figlia Moonee in adozione. Il finale è poi da antolgia del cinema, con la fuga dei bambini verso l'adiacente Disneyland che simboleggia il totale rifiuto-rifugio dalla relatà. L'apparizione sullo sfondo di un quasi minaccioso "Magic Castle" sempre più invasivo e falsamente consolatorio, rivela tutto il dramma di quest'epoca dalle enormi diseguaglianze sociali, celate da réclame bombardanti, TV - spazzatura, ciarpame consumistico, junk food, kitsch, falsi valori e vita apparentemente (!) serena. Mutatis mutandi, ricorda a contrario il titolo dell'eccellente capolavoro dei fratelli Cohen - "Non è un paese per vecchi" - ma qui non lo è nemmeno per bimbi.
Marco Brenni
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