Lo sguardo del Ridley Scott della fantascienza è da sempre pessimista: equipaggi spaziali sacrificati per portare sulla Terra un nuovo super soldato alieno, metropoli del 2019 putride, umidicce e malaticce, alieni-divinità che prima ci creano e poi vogliono distruggerci. Non è il caso di questo The Martian, film che fa del positivismo scientifico la sua ossatura e della speranza di un futuro di collaborazione proficua tra umani la sua anima. Tratto dal best-seller di Andy Weir, la trama ormai la sanno anche le pietre di Cydonia: in un futuro prossimo la Nasa, con i suoi astronauti, riesce a raggiungere Marte per studiarne la superficie; qualcosa va storto e la squadra è obbligata ad abbandonare la missione, battere in ritirata dal pianeta rosso e lasciare indietro il biologo del team (Damon), creduto ormai morto: quest'ultimo invece è sopravvissuto e, solo in un pianeta deserto, decide che, con la sua preparazione e l'attrezzatura di fortuna rimastagli, può continuare a sopravvivere e sperare di essere salvato.
Il film funziona alla grande per la sua intera durata e mette in scena l'eroicità dell'uomo normale e del suo sapere acquisito con l'impegno e il metodo che sa che non ha motivo di arrendersi, perché la sua conoscenza garantisce che la speranza di sopravvivere brilli ancora. Niente metaforoni trascendentali, tutto ciò che succede ha un suo perché e una sua logica, i vari personaggi si comportano come professionisti ed esseri umani veri, operando sempre la scelta che per loro è migliore. L'uomo tramite la scienza e la logica è capace di azioni che potrebbero a prima vista risultare impossibili, mentre nella realtà dei fatti non lo sono. Il Watney di Damon è uno scienziato impacciato e dal dubbio senso dell'umorismo, ma fortemente convinto nelle sue capacità, perché conscio della sua preparazione. E lo sguardo ottimista non si ferma all'individuo, ma si estende a macchia d'olio nell'intera comunità, tutti lavorano e cooperano (pure USA e Cina) al massimo per riportare quella persona, che non sarebbe dovuta essere abbandonata nella solitudine di Marte, all'interno della collettività-Terra. E questo discorso, nell’economia del film, mette decisamente in secondo piano tutte le piccole e a volte fastidiose ingenuità tipiche dei blockbuster americani, pur presenti anche qui.
Se Ridley Scott fosse un teorema scientifico, questo film sarebbe la prova finale che garantisce la verità del suddetto: egli è IL regista da blockbuster, le sue pellicole sono imponenti e ambiziose, fatte perlopiù per intrattenere, ma anche per far pensare, visivamente potenti e al botteghino (quasi) sempre fruttuose. A settant'anni passati, la sua mano registica resta sicura e di mestiere, non più in grado di virtuosismi o soluzioni innovative, ma con l'affidabilità di un pilota esperto. Da sempre, è uno dei migliori traduttori delle parole in immagini. Il problema sorge quando le parole alla base non funzionano, ed ecco che da oltre dieci anni, l'inglese più americano del cinema non riesce a confezionare un film che funzioni dall'inizio alla fine. Probabilmente troppo vincolato dalle case di produzione, il materiale di partenza delle sue ultime pellicole è o guasto al nocciolo (The Consuelor, Exodus), o con un cuore succoso, ma con una scorza poco digeribile (Prometheus). Ma quando hai un soggetto accattivante (il romanzo di Weir) e una sceneggiatura che funziona (merito del giovane Drew Goddard, scuola Wheadon), con Scott alla regia si ottiene di sicuro un gran bel film, visivamente maestoso, ben interpretato da un cast stellare, avvincente e per le masse, che giustamente lo premiano con gli incassi. Teorema dimostrato, CVD.
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