peer gynt
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giovedì 26 febbraio 2015
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le indagini folli del detective hippy
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Intendiamoci subito: a cercarle con il lanternino, potremmo anche trovare nel film tutte le tematiche tipiche della filmografia del regista Anderson. Ma in realtà siamo di fronte ad un film letterario (che nessuno puo' negare sia un genere filmico vero e prorpio), e per giunta un film letterario tratto da un romanzo di Thomas Pynchon, narratore fra i più intraducibili in pellicola. E infatti questa è la prima pellicola tratta da un'opera di Pynchon. Detto questo, chi va a vedere il film non si aspetti una vicenda chiara e lineare, facile da seguire, appassionante. La trama è labirintica e sfuggente, lo stile della sceneggiatura letterario, la pesantezza è assicurata.
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Intendiamoci subito: a cercarle con il lanternino, potremmo anche trovare nel film tutte le tematiche tipiche della filmografia del regista Anderson. Ma in realtà siamo di fronte ad un film letterario (che nessuno puo' negare sia un genere filmico vero e prorpio), e per giunta un film letterario tratto da un romanzo di Thomas Pynchon, narratore fra i più intraducibili in pellicola. E infatti questa è la prima pellicola tratta da un'opera di Pynchon. Detto questo, chi va a vedere il film non si aspetti una vicenda chiara e lineare, facile da seguire, appassionante. La trama è labirintica e sfuggente, lo stile della sceneggiatura letterario, la pesantezza è assicurata.
I realizzatori non hanno in animo di divertire lo spettatore, ma di vincere una sfida: tradurre in immagini le complesse affabulazioni del narratore americano. Difficile dire se ci siano riusciti. Di certo, se eccettuiamo il valore assoluto dell'ottima recitazione di un sempre straordinario Phoenix, il film non vive di luce propria, ma di luce riflessa. Il genere è l'hard-boiled di investigatori alla Marlowe, ma ambientato nel 1970, in piena epoca hippy: epoca lisergica quant'altre mai. E infatti il film risulta "drogato" al punto giusto, la musica d'ambiente dell'epoca (Neil Young e altri) e la musica appositamente scritta per il film ti danno il giusto senso di uno sballo perenne, e lo stesso spettatore alla fine si sente un po' "fatto" dai 148 lunghi minuti del film.
E il giudizio? Si va via ubriacati, confusi da una trama poliziesca che di poliziesco ha ben poco e con un dubbio atroce: abbiamo visto un film o ci siamo fatti una canna?
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(di lucinda)
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adelio
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lunedì 2 marzo 2015
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quando le parole diventano lessico dell'immagine
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Spesso il cinema si limita ad essere la mera illustrazione di una storia (tratta da un romanzo) e "Vizio di Forma" fortunatamente non lo è.
In realtà Anderson usa una sceneggiatura ma al solo fine di distruggerla, sembra optare decisamente per le riprese, abbandonando l'origine letteraria della storia. Le parole sono parole, non immagini...la loro scelta lessicale non è casuale.. il testo deve servire x essere "distrutto" e guadagnare "libertà".
Oh si..la stessa libertà che si respirava tra gli anni'60 e'70 in un'America semplice, sicura, certa del proprio ruolo nel mondo e dell'obiettivo da raggiungere. Quale migliore occasione se non quella di un NOIR per trasmettere questo clima, sfruttando un tipico filone cinematografico espressionista dai toni cupi e senza compromessi:Bene-Male.
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Spesso il cinema si limita ad essere la mera illustrazione di una storia (tratta da un romanzo) e "Vizio di Forma" fortunatamente non lo è.
In realtà Anderson usa una sceneggiatura ma al solo fine di distruggerla, sembra optare decisamente per le riprese, abbandonando l'origine letteraria della storia. Le parole sono parole, non immagini...la loro scelta lessicale non è casuale.. il testo deve servire x essere "distrutto" e guadagnare "libertà".
Oh si..la stessa libertà che si respirava tra gli anni'60 e'70 in un'America semplice, sicura, certa del proprio ruolo nel mondo e dell'obiettivo da raggiungere. Quale migliore occasione se non quella di un NOIR per trasmettere questo clima, sfruttando un tipico filone cinematografico espressionista dai toni cupi e senza compromessi:Bene-Male..Chiaro-Scuro.
Lo spaccato sociale presentato nel film mostra, in verità, un intreccio di personaggi e rapporti umani interferenti affatto gratuiti e tantomeno banali. Ma la lotta è fra Potere e Contestazione, dove è evidente che il regista fa una scelta di campo ponendosi dalla parte del mondo Hippy, non gli risparmia stoccate sottili, ma in fondo gli riconosce umanità, solidarietà e valore autentico, aspetti sempre presenti nella loro vita alternativa anche se sotto continuo effetto di stupefacenti.
Ci cala soavemente in questo periodo alla maniera psichedelica, la stessa della musica che compone la bella colonna sonora del film, le immagini ancorate ad intense caratterizzazioni di volti "umani", sempre in primo piano, i cui persistenti indugi invitano il pubblico a lasciarsi andare come se quel mondo raccontato fosse musica suonata sotto l'influsso di sostanze stupefacenti da ascoltare in analoga condizione.
L'America degli anni '70 non è solo muscoli (Big Foot - Commissario) o feccia disgustosa (Doc Sportello - Detective) sono 2 visioni ideologiche legate indissolubilmente come 2 facce "diverse" della stessa medaglia, entrambe cercano idealmente una improbabile verità e giustizia nell'ambito di una società ormai votata al declino. Si vede svanire la certezza del sogno americano quale esclusivo portale di una speranza fondata su principi libertari e anticomunisti.
Anderson ci mostra allora attraverso l'ironia il volto malato della "Mamma", Potenti magnati Ebrei protetti da gruppi Nazisti, questi ultimi in rapporti con frange del movimento Black, Anarchici ex eroinomani informatori del "Potere". Minoranze cinesi che escono dalle ChinaTowns per entrare nel commercio del sesso (bella l'idea dei centri benessere dove si paga per "leccare la.." e non vice versa).
Sembra un film senza logica ma è lo specchio di quel momento e l'unica certezza sembra essere il "Vizio di Forma" o "intrinseco" quello che nessuna società può evitare, neanche assicurandosi contro il rischio di accadimento, è l'umanità Hippy..è il loro messaggio di vita anche se a volte incoerente (vedi esperienza di Shasta).
La tecnica cinematografica offre poche riprese "aperte", molti primi piani che mettono alla fine di 2,5 ore di film (in lingua originale) un po' di fiatone, ampiamente compensati da una fotografia a tratti emozionante. Neil Young che irrompe con "Harvest" in un attimo di riflessione di Doc, una corsa Hippy sotto la pioggia, la recitazione di Phoenix, alcuni "quadri" pastello, valgono ampiamente il prezzo del biglietto. Film unitario e fedele sotto tutti gli aspetti:culturali, musicali, sociali e storici. Un grande stile di comunicazione cinematografica..un'opera da maestro.
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teofac
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sabato 28 febbraio 2015
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due ore di trip
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Premesso che è il primo film di P.T Anderson che vado a vedere,che dire: un film psichedelico,ambientatro negli anni 70 dove la droga di ogni tipo regnava sovrana nella vita degli hippy fricchettoni. Tutta la storia si basa sulla ricerca da parte del detective privato Doc Sportello di un magnate dell'edilizio scomparso,quest'ultimo amante dell' ex di Doc ,Shasta Fey, del quale il detective è ancora innammorato. Si può dire che in linea di massima le indagini di Doc seguano un filo logico durante tutto il film,ma sono tutte le piccolezze e le informazioni in più a rendere il film un vero "casino" ,in tutti i sensi, a volte non sono riuscito a seguire certe scene.
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Premesso che è il primo film di P.T Anderson che vado a vedere,che dire: un film psichedelico,ambientatro negli anni 70 dove la droga di ogni tipo regnava sovrana nella vita degli hippy fricchettoni. Tutta la storia si basa sulla ricerca da parte del detective privato Doc Sportello di un magnate dell'edilizio scomparso,quest'ultimo amante dell' ex di Doc ,Shasta Fey, del quale il detective è ancora innammorato. Si può dire che in linea di massima le indagini di Doc seguano un filo logico durante tutto il film,ma sono tutte le piccolezze e le informazioni in più a rendere il film un vero "casino" ,in tutti i sensi, a volte non sono riuscito a seguire certe scene. Presenti inoltre una continua ironia e comicià: a volte sottile altre volte volutamente esagerata. Interpretazione di Joaquin Phoenix,a mio parare, pazzesca, portando il protagonista a vivere in un perenne trip al di fuori dal mondo che lo rende in qualche modo ridico e comico a tratti. In conclusione Vizio di forma è un film strano, forse uno di quei film da guardare due o tre volte prima di poterlo apprezzare veramente ma mi è piaciuto,se volete qualcosa di diverso dai soliti film andatevelo a vedere,ma non aspettatevi il classico giallo.
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valerypto
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sabato 28 febbraio 2015
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il grande lebowski secondo paul thomas anderson
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Vizio di Forma, titolo originale: Inherent Vice, è il tentativo di Paul Thomas Anderson di riscrivere un viaggio, di divertirsi. Anche se non abbandona mai il suo stile, la sua scrittura ponderata e ben calibrata, la sua regia fatta di primi piani. Più di una volta, prova a mettere KO lo spettatore con trovate assolutamente incredibili, degli scatti (di idee e di camera) che hanno dello psichedelico. E non si capisce mai davvero, mai cosa sia reale e cosa no. Se le voci che sentiamo sono voci di persone vere, oppure se sono solo il frutto dell’ennesimo trip di Doc. Nel 1970 quella era la realtà, mentre molte persone osservavano il sogno Californiano del ritorno alla natura che lasciava il posto agli affaristi terrieri ed ai costruttori edili.
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Vizio di Forma, titolo originale: Inherent Vice, è il tentativo di Paul Thomas Anderson di riscrivere un viaggio, di divertirsi. Anche se non abbandona mai il suo stile, la sua scrittura ponderata e ben calibrata, la sua regia fatta di primi piani. Più di una volta, prova a mettere KO lo spettatore con trovate assolutamente incredibili, degli scatti (di idee e di camera) che hanno dello psichedelico. E non si capisce mai davvero, mai cosa sia reale e cosa no. Se le voci che sentiamo sono voci di persone vere, oppure se sono solo il frutto dell’ennesimo trip di Doc. Nel 1970 quella era la realtà, mentre molte persone osservavano il sogno Californiano del ritorno alla natura che lasciava il posto agli affaristi terrieri ed ai costruttori edili. Allo stesso tempo, la scena gioviale della marijuana cedeva il passo ai cartelli burocratici dell’eroina dall’estensione globale; gli ospedali psichiatrici venivano svuotati in favore di centri di “recupero” a fini di lucro; e un’era di vivace attivismo politico veniva guidato da una rete segreta di spie, infiltrati e giochi sporchi(ed ebrei nazisti). La storia di Vizio di Forma non è lineare e “semplice” come quella de Il grande Lebowski, di cui si capisce tutto in poco più (o poco meno, dipende dallo spettatore) di mezz’ora. In Vizio di Forma, veniamo catapultati in un giro impossibile, incredibile, fatto di spie e controspie, di intrallazzi tra governo e spacciatori, di federali e di costruttori, di ex-fidanzate e di poliziotti scontenti.
E insieme a Sportello interpretato da Joaquin Phoenix che è presente in ogni fottutissima scena(perno del film), indagheremo sulla Golden Feng, prima barca a tre alberi, poi triade cinese, infine scudo fiscale per alcuni “potenti” (e particolari) dentisti. La sottotrama è la droga, l’eroina. Al suo fianco, Bigfoot Bjornsen, “lo sbirro”, interpretato da Josh Brolin; e l’avvocato (di diritto marittimo) Sauncho Smilax, che ha la faccia di Benicio Del Toro. (Quando li vediamo tutti e tre insieme, seduti a un tavolo nel distretto di polizia, riusciamo quasi a vedere il miracolo del cinema: quello fatto di poco, di grandi interpretazioni e di facce espressive).
Il grande Lebowski faceva ridere per il suo surrealismo, per il suo continuo essere al di sopra delle righe e per i suoi personaggi, tutti più o meno caricaturali, dove il più normale (assurdamente) era il Drugo. In Vizio di Forma, invece, ci sono stereotipi ricalibrati, possibili, magari addirittura verosimili, se all'inizio possiamo essere disorientati da una tale moltidudine di notizie e informazioni, man mano che il film procede capiamo che l'intento del regista è quello guardare con occhio nostalgico un'epoca che non c'è più, soprattutto nella scena sulla note di Neil Young che mi ha fatto emozionare tantissimo. Vestiti decorati con fiori o vivacissime stoffe di colori vivi. Il loro ideale di pace e libertà risuonavano in maniera evidente in quel periodo. La ricerca sfrenata della totale libertà era il significato insito nel loro stile di vita. Questo movimento toccò particolarmente l'opinione pubblica, tanto da impressionare le pellicole di molti registi, nonché la musica di molti artisti. Si può definire Vizio di Forma il completamento della parabola discendente del sogno americano che Anderson aveva iniziato con il Petroliere e che aveva continuato con The Master. Da vedere filmone.
ESPERIENZA ONIRICA
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andrea cmt
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domenica 8 marzo 2015
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un mezzo passo falso
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Cosa rimane dei 148 minuti di Vizio di Forma? L'incertezza è tra l'abbronzatura di Joaquin Phoenix e la mascella di Josh Brolin, che ricordavamo essere meno volitiva, ma forse scegliamo la biondina che si offre in pasto al detective cannabinoide. Perchè alla resa dei conti nell'ultima opera di P.T. Anderson (che confondo spesso con l'omonimo Wes, perdonatemi) non c'è una cosa che funzioni: la sceneggiatura è ingarbugliata per usare un eufemismo, i personaggi sono delineati male e mancano di spessore, i dialoghi hanno qualche guizzo ma necessitavano di maggiore ironia (dato il contesto), il ritmo è blando e sonnacchioso (molti in sala dormivano), la regia sorprendentemente piatta e lineare, mentre anche qualche superfluo (ma non in questo caso) virtuosismo tecnico avrebbe quantomeno risollevato la diegesi di un film prolisso e sconclusionato, senza tuttavia salvare la baracca.
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Cosa rimane dei 148 minuti di Vizio di Forma? L'incertezza è tra l'abbronzatura di Joaquin Phoenix e la mascella di Josh Brolin, che ricordavamo essere meno volitiva, ma forse scegliamo la biondina che si offre in pasto al detective cannabinoide. Perchè alla resa dei conti nell'ultima opera di P.T. Anderson (che confondo spesso con l'omonimo Wes, perdonatemi) non c'è una cosa che funzioni: la sceneggiatura è ingarbugliata per usare un eufemismo, i personaggi sono delineati male e mancano di spessore, i dialoghi hanno qualche guizzo ma necessitavano di maggiore ironia (dato il contesto), il ritmo è blando e sonnacchioso (molti in sala dormivano), la regia sorprendentemente piatta e lineare, mentre anche qualche superfluo (ma non in questo caso) virtuosismo tecnico avrebbe quantomeno risollevato la diegesi di un film prolisso e sconclusionato, senza tuttavia salvare la baracca. Ma tant'è, spesi 7.50€, non mi sono alzato dalla sedia, benchè la tentazione fosse alta. Più che il sospetto c'è la certezza che il film necessiterebbe di una seconda visione.
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bruce harper
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venerdì 11 settembre 2015
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un'opera politica mascherata da noir.
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Non è facile trovare la quadra di ‘Vizio di forma’ se A) non si è letto il libro o B) non si ha un minimo di infarinatura della ‘New Hollywood’ degli anni 70 per cui gli assi cartesiani di tutta la corrente erano nostalgia & paranoia. Esattamente i due binari su cui si muove l’opera di Anderson che sotto una crosta sgangherata di eccessi farseschi e virtuosismi stilistici nasconde un cuore tragico e politico: il crollo disastroso di un’epoca in cui libertà e spontaneità cedono il passo ad autocontrollo e calcolo capitalistico. Ma il ‘vizio intrinseco’ a mio avviso (e non il ‘vizio di forma’ come erroneamente ma comprensibilmente tradotto) è la molecola di caos che giocoforza si nasconde dietro qualunque sistema basato su ordine e repressione (paranoia) e che basta da sola a far crollare lo status quo lasciando una flebile speranza per un ritorno al reale, essenziale ed autentico (nostalgia).
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Non è facile trovare la quadra di ‘Vizio di forma’ se A) non si è letto il libro o B) non si ha un minimo di infarinatura della ‘New Hollywood’ degli anni 70 per cui gli assi cartesiani di tutta la corrente erano nostalgia & paranoia. Esattamente i due binari su cui si muove l’opera di Anderson che sotto una crosta sgangherata di eccessi farseschi e virtuosismi stilistici nasconde un cuore tragico e politico: il crollo disastroso di un’epoca in cui libertà e spontaneità cedono il passo ad autocontrollo e calcolo capitalistico. Ma il ‘vizio intrinseco’ a mio avviso (e non il ‘vizio di forma’ come erroneamente ma comprensibilmente tradotto) è la molecola di caos che giocoforza si nasconde dietro qualunque sistema basato su ordine e repressione (paranoia) e che basta da sola a far crollare lo status quo lasciando una flebile speranza per un ritorno al reale, essenziale ed autentico (nostalgia).
Il concetto stesso di contro-cultura è per definizione un vizio intrinseco ma non credo sia il movimento hippy il vero candidato alla palingenesi, non nella visone del regista almeno. Rispetto alla filosofia del libro il film di Anderson accelera sul piano dei sentimenti riducendo il conflitto politico di Pynchon ad una malinconica danza identitaria e umanista. La fuga lisergica di una generazione nasconde in realtà la ricerca di un habitat, affettivo, spirituale e familiare. E solo nei sentimenti e negli affetti veri, genuini, autentici, l’autore sembra ravvisare quei valori astorici, laici e irriducibili, non subordinabili a una dottrina, convertibili a un sistema, manipolabili da un’ideologia, da cui partire per costruire la rinascita.
La trama è ovviamente un giocattolone, un pretesto, un diversivo (al pari delle droghe) come lo è da sempre in qualsiasi noir del’età classica in cui i personaggi non sono dei costrutti funzionali a un intreccio che li alimenta e giustifica ma, al contrario, vivono di vita propria trovando peso e identità nel rapporto sotterraneo tra l’Io e gli altri, tra l’io e l’ambiente, tra l’io e la propria ricerca personale. Non meravigliamoci quindi se ci ritroviamo a fine film con il classico cerino in mano e l’amara sensazione di essere mentalmente marci e compromessi. Perché in questa partita autoreferenziale e meta-testuale Pynchon e Anderson non si limitano a giocare con gli schemi della costruzione drammaturgica ma con gli spettatori stessi, le ‘porte della percezione’ e i meccanismi sottesi alla comprensione cognitiva. Attenzione, ci ammoniscono, quello a cui state assistendo è un grande bluff, una truffa, una finzione, ma la differenza tra il nostro racconto e le narrazioni che vi propinano ogni giorno (i media, la pubblicità, le istituzioni) è che noi lo facciamo in maniera dichiarata non subdola, ci autodenunciamo, perché il nostro non è un mezzo per controllarvi, per distrarvi, ma tuttalpiù per aprire gli occhi, oltrepassare la superficie e guardare quello che c’è sotto, il fine dietro il mezzo, la tragedia dietro la farsa, la verità dietro la menzogna, e mettere questa consapevolezza al servizio della vostra causa, qualunque essa sia.
In fin dei conti si tratta di una logica politica e per certi versi militante, un richiamo alle armi, che in Pynchon si trasforma in romanzo civile e sociale e in Anderson in un nostalgico ma spassosissimo lungo addio.
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(di francesco2)
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jaylee
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martedì 3 marzo 2015
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un thriller tanto fumo (e poco arrosto)
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Paul Thomas Anderson, regista semi-mitologico di Boogie Nights, Magnolia e Il Petroliere porta sullo schermo Thomas Pynchon, scrittore complesso come pochi nel panorama letterario USA, con un romanzo di qualche anno fa, ambientato nei lisergico 1970. Il detective hippie Larry “Doc” Sportello viene incaricato dalla sua ex, di ritrovare la sua nuova fiamma, il ricco magnate immobiliare Wolfman. Rimane invischiato in una storia di poliziotti reazionari, cartelli della droga integrati come corporazioni, servizi segreti, sette orientali, movimenti hippie, fratellanze arianei e chi più ne ha più ne metta…
In effetti il film di Anderson si presenta, in pieno stile 70s come un viaggio psichedelico lungo 2h30’, oscillando tra la farsa e il thriller.
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Paul Thomas Anderson, regista semi-mitologico di Boogie Nights, Magnolia e Il Petroliere porta sullo schermo Thomas Pynchon, scrittore complesso come pochi nel panorama letterario USA, con un romanzo di qualche anno fa, ambientato nei lisergico 1970. Il detective hippie Larry “Doc” Sportello viene incaricato dalla sua ex, di ritrovare la sua nuova fiamma, il ricco magnate immobiliare Wolfman. Rimane invischiato in una storia di poliziotti reazionari, cartelli della droga integrati come corporazioni, servizi segreti, sette orientali, movimenti hippie, fratellanze arianei e chi più ne ha più ne metta…
In effetti il film di Anderson si presenta, in pieno stile 70s come un viaggio psichedelico lungo 2h30’, oscillando tra la farsa e il thriller. Lo spettatore è subito assalito da un senso di paranoia e allucinazione come se fosse sotto effetto delle stesse sostanze di cui il buon Doc usa ed abusa. La storia non segue un percorso lineare, ad esser sinceri non sembra neanche seguire un qualunque sviluppo, quasi che la trama fosse un optional.
Che dire di Vizio Di Forma? La confezione è spettacolare, bellissimi i colori saturi e le ambientazioni stile Hair, con alcune scene spassosissime, tipo la visita al bordello o la festa con tanto di Ultima Cena hippie. Il cast è stellare, con un Joaquin Phoenix un John Lennon strafatto improbabile investigatore privato dalla scarsa igiene, e tutta una serie di comprimari che vanno dal poliziotto reazionario e cripto-omosessuale Josh Brolin, al saxofonista surfista Owen Wilson, al dentista cocainomane Martin Short, e poi Eric Roberts, Benicio Del Toro, Reese Witherspoon. Musiche d’epoca e di grande livello.
Detto questo… inizia il resto del film. Anche a prenderlo così come è, un trip psichedelico, Vizio di Forma appare a volte divertente, spesso pretenzioso, e alla fine confuso e luuungo. Se dovessimo rifarci a film simili, ad esempio Paura e Delirio a Las Vegas, oppure Il Grande Lebowski, l’opera di Anderson, pur essendo interessante l’idea del thriller paranoico e lisergico, appare incoerente sia per narrazione, che oscilla tra la parodia e il serio, sia per intento, con realtà e allucinazione che si intrecciano senza soluzione di continuità, così come i personaggi che entrano ed escono di scena, senza veramente un motivo. A volte si ha la sensazione che quello che è sullo schermo sia il frutto dell’immaginazione di Doc, ma a differenza di Paura e Delirio o Il Grande Lebowski, rimane una sensazione, mai risolta fino alla fine e, In generale manca proprio il senso di leggerezza che caratterizza gli altri due. Fin troppe sottotrame rimangono incomprensibili e dispersive. La fine arriva neanche un minuto troppo tardi.
Dopo il mezzo passo falso di The Master, Paul Thomas Anderson appare in piena involuzione: persa la bellissima e armoniosa coralità dei suoi primi lavori, (e privo di una star magnetica come lo sono Daniel Day Lewis o Philip Seymour Hoffman), questo lavoro è ambizioso, ma le singole scene, per quanto ben fatte, e qualcuna persino quasi-iconica, non bastano a salvare il tutto. Tanto “fumo” (in ogni senso), poco arrosto. (www.versionekowalski.it)
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zarar
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martedì 10 marzo 2015
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ha un difetto intrinseco: è noioso
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Forse solo un amatore sfegatato di un genere che potremmo chiamare hippy-noir, nonché dello stile e delle paranoie di Thomas Pynchon, l’autore postmoderno americano al cui romanzo “Inherent vice” (2009) il film si ispira, è probabilmente capace di riempire con la sua dedizione e la sua buona volontà i tanti difetti di questo lungo e scombiccherato film. Ti aspetti un noir? Forget it. Nonostante i mille intrighi, la trama gialla è solo un pretesto, la cui debole tensione ti tiene sveglio a fatica per le due ore e mezza del film e non ti offre neppure un convincente scioglimento finale. Ti aspetti che il personaggio-chiave, Doc Sportello, il detective destinato a ricoprire – bene o male – la figura dell’eroe in un mondo di corruzione, sette criminali, droga e mafie, ecc.
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Forse solo un amatore sfegatato di un genere che potremmo chiamare hippy-noir, nonché dello stile e delle paranoie di Thomas Pynchon, l’autore postmoderno americano al cui romanzo “Inherent vice” (2009) il film si ispira, è probabilmente capace di riempire con la sua dedizione e la sua buona volontà i tanti difetti di questo lungo e scombiccherato film. Ti aspetti un noir? Forget it. Nonostante i mille intrighi, la trama gialla è solo un pretesto, la cui debole tensione ti tiene sveglio a fatica per le due ore e mezza del film e non ti offre neppure un convincente scioglimento finale. Ti aspetti che il personaggio-chiave, Doc Sportello, il detective destinato a ricoprire – bene o male – la figura dell’eroe in un mondo di corruzione, sette criminali, droga e mafie, ecc. ecc., abbia la spavalderia sorniona, elegante e cinica di un Philip Marlowe? Forget it. Attraversa il film con l’aria sfatta e ‘fatta’ dell’hippy invecchiato, più testimone che attore di colpi di scena. Escluse dunque queste pur legittime aspettative, ti aspetti quello che i devoti di cui sopra riescono a vedere: un affresco di un mondo in disfacimento, l’America hippy degli anni ’60, con la sua relativa ‘innocenza’, e le sue utopie libertarie, annegata e travolta da un sistema violento e corrotto, mai sconfitto, ma anche da un’intrinseca debolezza e inconsistenza, un inherent vice che ne ha impedito un reale sviluppo. Beh, per far questo ci vorrebbe un’altra regia, più forte e convincente: fatta salva la fotografia, che ha spaccati bellissimi, il film non decolla: risulta non tanto complesso, quanto confuso; la recitazione è sconnessa, come sotto l’effetto di sostanze, quella che vorrebbe essere l’innocenza stanca, consumata e auto-ironica di Sportello e della sua ex Shasta si esprime in due personaggi mezzo suonati e improbabili; il mix violenza-comicità nonsense, che vorrebbe esprimere il dramma-tragica farsa di una crisi senza speranza, brilla di rado e troppo spesso in forma marionettistica, come nella figura particolarmente insopportabile (narrativamente) del poliziotto Bigfoot; i personaggi secondari sono come la trama: semplicemente non sono. C’è chi ha interpretato il film come un trip e vi si è immedesimato: trip del regista, dei suoi eroi e, last but not least, dello spettatore. Un trip che personalmente mi ha addormentato: è proprio la fine di un’epoca.
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jackiechan90
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martedì 10 marzo 2015
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il vizio di forma di anderson
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Ultimo film di Paul Thomas Anderson, facente parte di una possibile trilogia con i precedenti “Il petroliere” e “The Master” sulla storia e le contraddizioni degli USA, la pellicola ha decisamente diviso la critica tra detrattori e sostenitori. Il motivo sta nella demarcazione netta tra due livelli di visione del film: quello stilistico-formale e quello narrativo che non sempre sembrano coincidere all'interno della pellicola. Da un lato abbiamo una regia fatta di piani-sequenza estremamente elaborati e uniti a una colonna sonora che ben si adatta alle immagini e fa da ulteriore filtro della storia, scegliendo canzoni simbolo degli anni 70, insieme a una fotografia eccezionale saturata all'inverosimile dove colori caldi e freddi sono ben distinti tra loro.
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Ultimo film di Paul Thomas Anderson, facente parte di una possibile trilogia con i precedenti “Il petroliere” e “The Master” sulla storia e le contraddizioni degli USA, la pellicola ha decisamente diviso la critica tra detrattori e sostenitori. Il motivo sta nella demarcazione netta tra due livelli di visione del film: quello stilistico-formale e quello narrativo che non sempre sembrano coincidere all'interno della pellicola. Da un lato abbiamo una regia fatta di piani-sequenza estremamente elaborati e uniti a una colonna sonora che ben si adatta alle immagini e fa da ulteriore filtro della storia, scegliendo canzoni simbolo degli anni 70, insieme a una fotografia eccezionale saturata all'inverosimile dove colori caldi e freddi sono ben distinti tra loro. Dall'altro è la storia stessa, forse eccessivamente incastrata da tali artifici, che perde di senso nel dedalo labirintico di una Las Vegas dove niente è come sembra e nei trip mentali del protagonista, uno stralunato Joaquin Phoenix che interpreta il detective-hippie Doc Sportello, ingaggiato dalla sua ex Shasta(Katherine Waterston) per una ricerca su un miliadario scomparso e una misteriosa barca che non attracca mai. Certamente l'effetto straniante è voluto e cercato da Anderson che modella il suo ultimo film come una delirante quest alla ricerca di un sacro Graal di cui non conosciamo neanche l'effettiva sacralità, ed è debitore di molte altre pellicole noir crepuscolari che rileggono i clichè del genere(il film sembra un incrocio tra Chinatown di Polansky, per la “solarità” del film e Il grande Lebowski dei Coen per l'umorismo e la scelta di un detective non convenzionale). Non saprei giudicare quanto Anderson abbia mantenuto del romanzo originale di Thomas Pynchon(per il semplice motivo che non l'ho letto) ma mi sembra che questo ultima pellicola di Anderson riprenda clichè del genere noir già visti e rivisti e che quindi manchi di un'effettiva originalità di contenuti quasi come se il regista avesse fatto un passo indietro rispetto ai precedenti lavori pur confezionando un ottimo film dal punto di vista stilistico di cui non si può non rimanere indifferenti. Quasi come se il “vizio di forma” del film non fosse tanto il deus ex-machina casuale che permette la soluzione del caso nella vicenda, quanto quello dello stesso Anderson che riesce a confezionare(e a salvare) un buon film noir grazie all'uso di una regia virtuosa che compensa la trama ingarbugliata e posticcia. Insomma un filmetto certamente godibile e divertente che trova anche il tempo di far riflettere sulle contraddizioni di un'epoca(gli anni 70) ancora vive nella memoria collettiva statunitense(tanto che si ha la sensazione che il film si riferisca più al presente che non al periodo effettivo in cui è ambientato) ma che alla fine, nonostante tutto, risulta vuoto nei contenuti. Sarebbe stato un ottimo film dieci anni fa, oggi risulta un po fuori luogo.
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alex2044
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lunedì 9 marzo 2015
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avrebbe potuto essere un capolavoro ma ...........
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Queso film ha tutto per essere un gran film . E' ben girato, ben ambientato con interpreti molto bravi ed un protagonista fenomenale . Il film è simpatico ,intelligente ,spiritoso però c'è un ma che non gli permette di esserlo . Questo ma è rappresentato da un andamento a sbalzi con alcune scene strepitose ed altre modeste quasi che il regista avesse voluto che non solo la storia ed i personaggi fossero sopra le righe ma che lo fosse anche la sua regia . La durata ,forse eccessiva , non disturba più di tanto anche perchè la seconda parte è senz'altro meglio della prima . Quindi il motivo per cui il film non è stato quello che avrebbe potuto essere mi rimane misterioso.
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Queso film ha tutto per essere un gran film . E' ben girato, ben ambientato con interpreti molto bravi ed un protagonista fenomenale . Il film è simpatico ,intelligente ,spiritoso però c'è un ma che non gli permette di esserlo . Questo ma è rappresentato da un andamento a sbalzi con alcune scene strepitose ed altre modeste quasi che il regista avesse voluto che non solo la storia ed i personaggi fossero sopra le righe ma che lo fosse anche la sua regia . La durata ,forse eccessiva , non disturba più di tanto anche perchè la seconda parte è senz'altro meglio della prima . Quindi il motivo per cui il film non è stato quello che avrebbe potuto essere mi rimane misterioso. Inducendomi però ,quasi come una vendetta postuma a pensare di vederelo un'altra volta per capirne il motivo . Caro Anderson hai fatto un film che aveva tutto per essere un capolavoro ma come capita spesso nella vita hai sprecata l'occasione ma riprovaci perchè la stoffa c'è .
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