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La dittatura dei Seventies

Le ossessioni di Vizio di forma.
di Roy Menarini

In foto Joaquin Phoenix, protagonista di Vizio di forma di Paul Thomas Anderson. Il film, al cinema dal 26 febbraio, ha ricevuto ben 2 nomination all'Oscar.
Joaquin Phoenix (Joaquin Raphael Phoenix) (49 anni) 28 ottobre 1974, San Juan (Portorico - USA) - Scorpione. Interpreta larry Doc Sportello nel film di Paul Thomas Anderson Vizio di forma.

domenica 1 marzo 2015 - Approfondimenti

43 milioni di dollari, 48 milioni di dollari, 76 milioni di dollari. Sono gli incassi in ordine cronologico, ottenuti su scala mondiale, da Boogie Nights, Magnolia, Il petroliere. Poi 28 milioni (The Master) e 8 milioni (Vizio di forma). Quest'ultimo film, di cui parliamo in queste righe, deve ancora fare la sua strada sui mercati non americani ma è opinione comune che non supererà i 20-25 milioni.

Che cosa ci dicono queste cifre? Che Paul Thomas Anderson, a un certo punto della sua carriera, ha deciso di radicalizzare il suo cinema. Per coloro che vedono con sospetto gli incassi (ovvero come risultato di un compromesso con l'industria) il dato verrà salutato con entusiasmo. Molto meno da chi rimpiange la ribalderia contagiosa, la passione per il racconto, la leggibilità universale dei suoi film più famosi.

Insomma, esistono ragioni estrinseche se Vizio di forma ottiene risultati di largo consenso critico (vicino all'apoteosi se analizziamo le riviste con giudizi dati in numeri), e lascia a dir poco freddo il pubblico. The Master e Vizio di forma sono per certi versi simili, cinematograficamente parlando. Sono pieni di snodi di trama poco comprensibili, guardano agli autori hollywoodiani anni Settanta (decennio in cui Anderson avrebbe voluto vivere e girare film), usano long take o piani sequenza estenuanti, mettono in scena dialoghi deliranti e spesso nonsense, offrono personaggi e situazioni senza uscita. Basti pensare al personaggio qui interpretato da Owen Wilson che, sia pure secondario e talvolta descritto come se ci trovassimo in un film dell'altro Anderson (Wes), è protagonista di una sorpresa finale, in alcun modo sorretta o giustificata dal suo peso nella trama.

La radicalità, di per sé, non è sempre eroica. Il drastico calo dell'interesse del pubblico non è sempre sinonimo di schiena dritta. La sfida questa volta era ancor più ardua. Adattare Thomas Pynchon. Ovviamente, se si fosse trattato di una trasposizione dei suoi capolavori (Anderson ammette di averci provato), anche la critica accademica avrebbe affilato le armi. Di fronte a uno dei suoi romanzi recenti, segnati dalla ripetizione inefficace degli schemi letterari postmoderni e da uno smalto a dir poco appannato, il gioco è meno rischioso.

Ci troviamo comunque di fronte a uno scacco. Anche volendo digerire modernismi irritanti come l'uso della musica in senso anti-psicologico o le esplosioni di violenza improvvisa in stile New Hollywood, di questo noir non si può dire che si sentisse un bisogno impellente. Adattare Pynchon che gioca con Chandler pensando ad Altman che mette in scena Marlowe? Raccontare il 1970 come fine delle utopie con un occhio a Hunter Thompson e un altro a Hal Ashby? Far ridere (ancora una volta) con una galleria di scoppiati, hippy e squinternati personaggi dediti al consumo di droghe?

Tutto vero, e ammirevolissimo. Ma forse quel che chiediamo al cinema contemporaneo è di usare tutti quei riferimenti per creare qualcosa di sorprendente, brillante ed efficace, narrativamente forte e capace di calore umano. Insomma, quel che era Il grande Lebowski sulle stesse, medesime premesse storiche e non è Vizio di forma, sia su carta che su schermo.

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