BARBARA
Forse la nostra critica andrà del tutto fuori misura, ma, a dispetto di molte cose che accadono nel film, delle parole messe in bocca alla protagonista, di alcune immagini crude che non lasciano spazio ad indulgenze, in Barbara abbiamo respirato un’atmosfera di nostalgia.
Ambientato nella Germania Est del 1980, ma girato ai nostri giorni, il film sembra osservare con occhio critico la distanza degli oltre 30 anni che ci separano da quel periodo. C’è una rivalutazione estetica di quei momenti, visti, come già altri hanno fatto notare, non attraverso una scelta di colori freddi e bluastri che avrebbero indotto in chi guarda un appesantimento automatico del giudizio negativo. Quella era stata la visione offerta da Das Leben des anderen, “Le vite degli altri”, il drammatico lungometraggio d’esordio del regista Florian Henckel von Donnersmarck, uscito nelle sale nel 2006. La scelta del regista Christian Petzold è, in questo senso, forse più coraggiosa. Al pubblico ignaro dello svolgersi degli avvenimenti è offerta una maggiore libertà di sintonizzarsi storicamente con quegli anni attraverso uno sguardo d’epoca, neutro, non già segnato dall’analisi storica e dalla condanna politica fatta a posteriori. Le tinte che colorano il film sono, infatti, calde, accoglienti e sembrano voler mettere a repentaglio la pressoché universale pena morale inflitta a quella stagione.
Ciò premesso, riteniamo del tutto inappropriato l’accostamento fatto da alcuni fra le due storie. Se là assistevamo alla palingenesi di un potenziale aguzzino che consente alla vittima di salvarsi dalle grinfie di un regime spietato, in Barbara, la protagonista, tenuta sotto controllo dalla Stasi, col suo atteggiamento distaccato e scontroso non solo tiene a distanza chi vorrebbe entrare in sintonia con lei, ma, almeno all’inizio, allontana anche le simpatie del pubblico.
Quando si arriva alla fine della storia, il cui esito si delinea gradualmente con chiarezza, non si ha (almeno non l’ha avuta chi scrive) la sensazione che il regista e lo sceneggiatore abbiano inteso dare a “La scelta di Barbara” un taglio sentimentale. Abbiamo pensato piuttosto ad un riesame, meglio ad un ripensamento della coscienza critica, alla luce dell'attuale situazione politica europea e mondiale. Se questa chiave è corretta, è, non di meno, del tutto sotterranea, implicita, ma spiegherebbe in parte la differenza fra Le vite degli altri (girato nel 2006, in epoca pre-crisi) e Barbara. Non pensiamo che Christian Petzold abbia inteso rivalutare la stagione del comunismo, ma supponiamo, invece, che abbia cercato uno sguardo su come le cose sarebbero potute andare in presenza di una differente evoluzione storica.
Così, il sentimento che poco alla volta prende Andre, il primario che lavora con Barbara nell’ospedale pediatrico di un paese di provincia dove la donna è stata confinata, ha quel calore sincero ma discreto che dà un senso di sicurezza. Percezione, questa, sempre più estranea al nostro mondo occidentale, preso com’è fra le morse della crisi economico politica e una fragilità indotta dal consumismo che intacca anche i sentimenti. Oppure, quando Barbara s’incontra in una camera d’albergo col fidanzato, insieme al quale progetta la sua fuga via mare, abbiamo letto uno sguardo perplesso all’ipotesi prospettatale di una futura vita in Danimarca, in cui lui guadagnerà abbastanza per consentirle di stare a casa. Allo stesso modo, una vera immagine poetica si apre nella casa di Andre, ricca di cultura, libri, un pianoforte e un giardino arioso che offre una sensazione di serenità non edulcorata, anche questa molto distante dalla miseria spirituale in cui versa sempre più l’occidente.
Come dire? Sembra di essere dentro una fiaba di ricca miseria, tipica dei fratelli Grimm o di Andersen. Una fiaba in cui i cattivi in qualche modo saranno messi all’angolo. Poi, però, il libro si chiude e ci si sveglia da questo periodo ipotetico dell’irrealtà.
Bravi gl’interpreti, Nina Hoss e Ronald Zehrfeld.
Enzo Vignoli
20 luglio 2013.
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