Beautiful Country

Il Vietnam è in Texas

Sembra che "bui doi", in lingua vietnamita, significhi "meno della polvere": è il soprannome sprezzante che indica i figli di ragazze vietnamite e militari americani nati negli anni 1964-1975 della guerra. Sono, sembra, 12-18 mila, ormai adulti. Dopo la sconfitta e il rimpatrio degli americani, madri e figli vennero chiusi in campi di rieducazione: ma gli insulti, i maltrattamenti contro i figli, considerati frutto di occupanti stranieri e di traditrici della patria, durarono a lungo, per vent'anni e oltre.
Beautiful Country, titolo sardonico del film norvegese di Hans Petter Moland, è naturalmente l'America sognata e poi raggiunta. Attraverso la vicenda personale di un "bui doi" ragazzo collocato in Vietnam nel 1990, si vogliono raccontare i tormenti inflitti a un gruppo di "diversi" sempre presi a calci, immersi nel dolore; si vuoi illustrare con minuzia le schiavitù, le condizioni orribili delle migrazioni clandestine dal Sud-est asiatico a New York nelle stive di vecchie navi, sotto il dominio dei cinici delinquenti; vuoi sostenere che il Bel Paese non esiste, che un destino infame può perseguitare i più deboli, inalterato, in Vietnam come in Texas. Il ragazzo che cerca il padre americano nei film lo trova e trova con lui identità, famiglia, affetto, ma non una vita materiale migliore.
In Beautiful Country Nick Nolte è il padre, un reduce mutilato che sopravvive solitario in un piccolo ranch texano, Tim Roth è il capitano della nave dei profughi. Niente melodramma né pietismo, nessun sentimentalismo, emozioni così alte da parere indescrivibili: un film pudico, secco e bello.
Da L'Espresso, 06 luglio 2006


di Lietta Tornabuoni, 06 luglio 2006