Mystery Train

   
   
   

Irene Bignardi

La Repubblica

Accolto a Cannes dai pregiudizi a favore e dall’accoglienza festosa del Festiva! 1989, Mystery Train di Jim Jarmusch non aveva entusiasmato la scrivente. Che, per amore di Jarmusch, perché le erano molto piaciute la stravagante intelligenza e le qualità di commedia balzana di Stranger Than Paradise e di Daunbailò è tornata a vedere il film alla vigilia della sua uscita italiana, sperando che la mancanza di entusiasmo cannense fosse solo il frutto dell’indigestione festivaliera.
La reazione di fronte a Mystery Train, ogni passione festivaliera spenta, resta invece la stessa (salvo il doveroso apprezzamento per il fatto che il film è presentato in versione originale con sottotitoli generalmente belli e ben fatti).
Restano l’ammirazione per la bravura, il mestiere, la cultura visiva e musicale, la sapienza peraltro non proprio originalissima della struttura. Ma resta anche un vago fastidio di fronte al minimalismo del nulla, sofisticato ma senza corpo, elegante ma senza vita, di quello che è un film intelligente (o almeno, che esplora dall’alto dell’intelligenza gli abissi della stupidità marginale), un film ben impaginato e ben fotografato da quel mitico direttore della fotografia che è Robby Muller (che è stato anche il cinematographer di Wim Wenders, cui il film è dedicato). E resta l’imbarazzo di fronte a una ricerca dello stile e dell’idea bizzarra che è preponderante sino a prevaricare.
Siamo a Memphis, nel Tennessee, patria di Elvis Presley, e prima o poi tutti i personaggi finiscono per andare a dormire nello stesso squallido Arcade Hotel, tutti sentono lo stesso treno della notte e lo stesso colpo di pistola delle 2.17, tutti dormono sotto lo stesso ritratto di The King e ascoltano la stessa Blue Moon.

Il film è costruito su tre episodi. In Lontano da Yokohama seguiamo in giro per Memphis, da quando scendono dai treno a quando ripartono, dal Sun Studio al monumento di Elvis, due giapponesini che sembrano usciti da una strip, che parlano solo giapponese (quando si dice l’idea), che bisticciano petulantemente perché lei è pazza di Elvis e lui di Carl Perkins, perché lei ama la stazione di Memphis e lui quella di Yokohama, perché lui è sempre cupo e lei vorrebbe un sorriso.
In Un fantasma, Nicoletta Braschi, vedova recente al seguito della salma del marito, prima viene abbordata in un diner da uno scroccone locale che le rivende una trita storia sul fantasma di Elvis, poi finisce per dividere una stanza d’albergo con una ciarliera compagna occasionale in fuga dal quasi marito (e intanto, tra una apparizione del fantasma di Presley e Blue Moon, cerca di leggere la sua edizione tascabile dell’Orlando Furioso).
In Perduti tra le stelle due poveracci perduti nello spazio urbano morente di Memphis - il fratello e un amico della chiacchierona in fuga - cercano di impedire che il di lei quasi marito piantato e licenziato nello stesso giorno combini un pasticcio. Che inevitabilmente combina.
A legare i tre episodi, in un frammentario real time narrativo, ci sono l’immagine e il mito ossessivo di Elvis, un’America urbana fatiscente, desolata, vuota, che assomiglia non tanto incredibilmente a quella fotografata da Wim Wenders nel suo libro Scritto nel West, e l’Arcade Hotel con il suo portiere e il suo boy, cui Jarmusch regala qualche divertente quanto gratuito tormentone (ma la battuta più autentica la mette in bocca al balordo, costretto a giustificarsi: “In questa città così nera, non è colpa mia se sono nato bianco”).
Quanto basta per confermare un talento, un’intelligenza e un autore. Ma tutto giocato troppo sulla perfezione dei rimandi, sulla eleganza della sua visione postmoderna, sul gusto delle immagini, Mystery Train fa rimpiangere la freschezza anarchica del primo Jarmusch. La sua giovanilistica bizzarria si è trasformata in un sapiente ma non interessante manierismo (al contrario di quanto è accaduto a Spike Lee con il suo coevo Fa’ la cosa giusta).

Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996

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