Di solito non è possibile riuscire a comprimere un film di più di 120 minuti in una manciata di scene.
Nel caso di "Harry Potter e i Doni della Morte, Parte 2" invece sì. E il protagonista di questi pochi istanti di pura recitazione è Alan Rickman nei panni di Severus Piton (all'inglese, Severus Snape).
Il vero protagonista è lui: un personaggio che per più di sette film è rimasto immutato nelle sue espressioni, nella sua parlatina trascinata e sibilante; nei suoi modi terribili e da "bad teacher", diventa improvvisamente un surrogato esplosivo di sentimenti ed emozioni.
Severus Piton non è più il temibile Professore della Casa di Serpeverde: e Harry Potter, almeno per lui, non è più solamente il "Ragazzo-Che-E'-Sopravvisuto", ma il figlio di Lily Evans, la donna che ha sempre amato, e per la quale è stato pronto a voltare le spalle a Lord Voldemort e a votarsi con tutto se stesso ad un Silente (Dumbledore, nella versione originale) cinico e calcolatore.
Paradossalmente, in questo ultimo episodio, i ruoli sembrano quasi invertirsi: i cattivi, quelli che sono sempre stati reputati tali fin dal primo film, riscoprono la loro vena buonista (oltre Piton anche i Malfoy); mentre i buoni - se non diventano ancora più buoni - si lasciano corrompere dal male e dalla paura (ne è un esempio il venditore di bacchette Olivander).
In un film in cui Yates non ha risparmiato né effetti speciali, né colpi di scena, la storia che ha creato JK Rowling trova fine. Bene, male, discretamente: un fan non riuscirebbe sicuramente a dirlo. Un critico, al contrario, potrebbe notare come, benché la presenza di un eccellente Ralph Fiennes nei panni di Voldemort, o di una Helena Carter capace di impersonare una Bellatrix Lestrange "ragazzina", ancora una volta non sia stata colta l'occasione per andare al di là dei semplici libri, di "plasmare la materia" e di creare una "vera" magia.
Yates, in questo, fallisce: ma non fallisce con la scena del bacio - tanto attesa e voluta dai fan - tra Hermione e Ron; in qualche modo, quasi in calcio d'angolo, rendendo la McGranitt un personaggio capace di ironia e autoironia, riesce anche a "epicizzare" una battaglia che nel libro della Rowling era apparsa piuttosto statica - parlo della battaglia di Hogwarts, dove lo schieramento dei Mangiamorte sembra rievocare una di quelle scene alla Jackson de "Il Signore degli Anelli".
Un'altra cosa, però, che si fa sentire con la sua assenza è la mancata "umanizzazione" di Albus Silente. Yates, infatti, non riporta i ricordi del grande mago, non lo fa piangere durante il dialogo con Harry Potter nella "paradisiaca e bianchissima" King's Cross post-mortem, e non mostra il suo aspetto più debole - quello che, probabilmente, ha più conquistato nel libro "I Doni della Morte".
Per il resto, le solite - necessarie - cose: per problemi di budget, di casting e, probabilmente, di tempi, la storia viene riscritta nei suoi dettagli più "trascurabili" e l'Harry Potter, il Ron Weasley e l'Hermione Granger del futuro sono dei banalissimi Daniel Radcliff, Rupert Grint ed Emma Watson malamente truccati.
Sicuramente è un film da vedere per l'epilogo di una delle saghe più seguite e più di successo degli ultimi anni; d'altra parte, però, è una pellicola da evitare con una certa cura se si è amanti genuini del genere, e appassionati fan della saga letteraria.
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