Diabolik

La trasposizione cinematografica di Diabolik diretta dai Manetti Bros., trasporta il pubblico nell’atmosfera fredda, monocromatica e bidimensionale del fumetto. La pallida saturazione dei colori e la frigidità dei comportamenti umani danno quasi l’impressione che le immagini scorrano su una lastra di alluminio.
Per tutta la prima metà del film, lo spettatore avverte l’esitante timidezza di chi si esibisce per la prima volta dinanzi ad un pubblico, l’imbarazzo dell’esordiente che deve rompere il ghiaccio conquistando una moltitudine di sconosciuti che fino a quel momento lo ha ignorato e che adesso lo osserva con implacabile scetticismo.
Dopo circa un’ora di uniformità emotiva, quando tutte le speranze di vedere qualcosa di buono sono ormai svanite, accade l’impossibile: dalla piattezza monocorde del racconto comincia ad acquisire spessore e dignità la figura femminile di Eva Kant, sale la tensione, prende forma l’azione.
Eva Kant è una donna straordinariamente bella cui nessun uomo sa resistere. Uomini ricchi e potenti sarebbero disposti ad esaudire ogni suo desiderio pur di ottenere il suo amore. La seduzione di Eva non scaturisce soltanto dall’avvenenza fisica. Le morbide rotondità delle fattezze e la felina eleganza dei movimenti non possono giustificare, se non in minima parte, la malia con cui irretisce gli uomini. Come per la dea della bellezza, ciò che maggiormente affascina di lei, è lo spirito di indipendenza, quella luce speciale che brilla negli occhi di chi è alla ricerca di qualcosa di assolutamente individuale e che dall’esterno lo fa apparire “inafferrabile”. Il lusso e il prestigio sociale non bastano a conquistare il suo spirito indomito, attratto invece da chi, non sopportando come lei la banale monotonia della quotidianità, ha scelto di vivere nel rischio e nell’eccitazione di una trasgressione perpetua.
Anche Diabolik non può fare a meno dell’amore ed il suo cuore è fatalmente ghermito dallo spirito affine di Eva. Chi come lui, rasenta continuamente la morte compiendo imprese strabilianti, ha bisogno di avere al suo fianco una donna altrettanto straordinaria con cui condividere l’esaltazione e il pericolo delle azioni. La passione che si innesca tra i due conferisce colore e calore alla pellicola, destandola dal torpore iniziale.
Come in un’infinità di altre storie, è l’amore per una donna a salvare il protagonista maschile dalla disgrazia irrevocabile. Del resto, non potrebbe essere altrimenti, dal momento che, come ci insegna l’etologia, sono le femmine e non i maschi le creature più temerarie e combattive del regno animale, pronte a lottare selvaggiamente per difendere ciò che per loro è prezioso.
Anche se nel corso dell’intera proiezione eccelle solo la figura di Eva Kant, l’esito complessivo è lodevole in rapporto alla temerarietà dell’impresa di realizzare un lungometraggio sul personaggio ideato dalle sorelle Giussani, oggi ormai anacronistico, ma che è stato uno dei simboli della ribellione giovanile alle imposizioni collettive, per le generazioni degli anni 50, 60 e 70 svezzate con i suoi fumetti.