
L'audio della bambina palestinese diventa la traccia dominante di un film che può prendere più direzioni attorno al suo grido di aiuto. Al cinema.
di Simone Emiliani
Urla nel silenzio. Un frammento reale, già vissuto, già ascoltato, disponibile in rete in cui si sente il breve audio della bambina palestinese di cinque anni e mezzo che il 29 gennaio 2024 si trovava nella striscia di Gaza (precisamente nel quartiere di Tel al-Hawa vicino a un distributore di benzina) e ha chiamato i volontari della Mezzaluna Rossa per chiedere aiuto. Per mezza giornata è rimasta nascosta sotto il sedile dell’automobile di suo zio ed è stata circondata dal rumore degli spari e dei carri armati che si avvicinavano.
C’è un dato esistente: la registrazione della voce di Hind Rajab. Quella completa durava circa settanta minuti da cui emergeva la paura e il tentativo di resistere da parte della bambina. Il footage audio diventa la traccia dominante, decisiva del film. Da lì si muove tutta l’alternanza tra voce, suoni e silenzi. Potrebbe anche reggere da solo. Gli operatori che cercano di mettersi in contatto con lei sono l’altra storia, l’incrocio tra documentario e la ricostruzione del dramma come era avvenuto in Quattro figlie, il precedente film della regista tunisina. Non c’è il rumore del ciak ma ogni volta la rappresentazione attorno a quella voce che è presente e poi scompare, può cambiare i punti di vista di regia e il movimento dello spazio degli attori.
Ma una cosa resta essenziale: il fantasma della morte. Come è rappresentabile dal film soprattutto su un audio già esistente? La voce di Hind Rajab, da un punto di vista cinematografico, ha la tensione di un thriller soprattutto in quell’alternanza tra speranza e disperazione. Ma questo non è un film. O almeno, non è un film come gli altri. Intanto perché si sa già come va a finire. In più quella voce diventa l’orrore (anche in un’accezione horror) della tragedia. In La voce di Hind Rajab la visione di André Bazin come ‘desiderio di sconfiggere la morte’, anche se è una parziale chiave di interpretazione, non basta più.
Nel caso della bambina palestinese non c’è l’illusione che il cinema possa renderla immortale. Al contrario, è già una voce lontana. Il film diretto da Kaouther Ben Hania, non cerca di renderla eterna attraverso la riproduzione oggettiva della realtà, ma di catturarla, fermarla per tenerla in vita proprio lì, sull’istante. Non si tratta tanto di filmare la morte, quanto il suo fantasma: la foto di Hind Rajab, l’acqua del mare. La vita solo attraversata e mai vissuta.
Sta proprio qui la struggente impotenza del film evidente anche nell’immagine del percorso satellitare dell’ambulanza per andare a salvarla. Forse le ombre della morte sono presenti – non in maniera speculare ma come tracce di una fine imminente – in maniera non dissimile a quelle dello strepitoso A House of Dynamite, anche questo in concorso all’82° Mostra del Cinema di Venezia. Kathryn Bigelow, al pari di Kaouther Ben Hania, racchiude il film prevalentemente all’interno di una stanza.
In entrambi i casi c’è una corsa contro il tempo. Il missile, Hind Rajab. Poi, come in La zona d’interesse di Jonathan Glazer (tra i produttori eseutivi di La voce di Hind Rajab), la morte è nel fuori-campo. Non c’è immagine, flashback. Quel file audio irrompe dentro le immagini, le rende dipendenti. È questa la principale traccia che resta, sia nei video in rete sia nel film. Lo stesso file che, estratto dal suo isolamento di reportage e inserito dentro il film, provoca la scossa. Equivale alla stessa ipnosi davanti alle immagini dei campi di sterminio in Polonia nel fluviale Shoah. I volontari della Mezzaluna Rossa non sono solo gli attori attorno ai quali viene costruita la storia di Hind Rajab. Sono anche come i testimoni, i sopravvissuti del documentario di Claude Lanzmann che possono raccontare questa storia. Il modo di rappresentarla ha lo stesso impatto del cinema sull’Olocausto.