Muti

Nella lingua Swahili, diffusa in Africa orientale e centrale, il termine "Muti" significa "medicina" ma indica anche una macabra forma di sacrificio umano propria di alcune tribù in cui, prima dell'uccisione, vengono rimosse parti del corpo dalla vittima ancora in vita, affinché le sue urla di dolore possano evocare le divinità. Si tratta di omicidi rituali che vengono perpetrati e commissionati per ottenere, secondo l'oscura credenza, maggiore fortuna, forza, potere. Incaricato di eseguire questi brutali crimini, un serial killer africano agisce tra Stati Uniti ed Europa. A dargli la caccia è il detective Boyd (tormentato dal trauma per la morte della figlia), con l'aiuto di un ispettore di Roma e del professor Mackles, antropologo di origine africana e dal passato misterioso.

Il thriller di George Gallo vorrebbe combinare action e riflessione filosofica, ma soffre di una sceneggiatura incongruente e di una regia poco incisiva.

A metà anni Novanta, Morgan Freeman inseguiva assieme al giovane collega detective Brad Pitt un diabolico Kevin Spacey, tra i serial killer più celebri e inquietanti del cinema, nel thriller cult Seven di David Fincher. Il successo fu tale che l'attore ci prese gusto e arrivarono in quella fase della sua carriera altri ruoli simili, come il criminologo investigatore di Il collezionista e Nella morsa del ragno: film medi, molto lontani dalla portata del capolavoro 'crime' di Fincher, eppure confezionati con dignità. Suscita dunque un certo effetto rivedere oggi l'ottantacinquenne Freeman impegnato in questa operazione piuttosto sconclusionata, nella parte del docente universitario a cui il poliziotto protagonista Boyd (Cole Hauser) si rivolge per catturare lo spietato "ritual killer".

Il monologo iniziale in cui Freeman parla ai suoi studenti di relativismo culturale e del labile confine tra ragione e pazzia, moralità e immoralità, a seconda del contesto culturale di riferimento, sembra poter mettere le basi per un thriller in grado di combinare l'action e l'elemento filosofico. Tuttavia, purtroppo, il film di George Gallo si perde dietro una sceneggiatura traballante e sconnessa. Non c'è nulla che leghi davvero le vicende che si svolgono a Roma con la trama principale ambientata nel Mississippi, se non le esigenze della coproduzione italoamericana; i due filoni narrativi risultano quindi non intrecciati tra loro ma incollati in maniera forzata e debolissima, e a rimanere mutilata è l'indagine psicologica dei personaggi, tagliati (metaforicamente) con l'accetta.

Nemmeno le modeste scene d'azione possono innalzare il livello di una regia poco incisiva, come testimoniano gli inseguimenti a basso tasso di spettacolarità (nonostante le lunghe corse dell'ex giocatore di football americano Vernon Davis, nel ruolo del mercenario assassino). Quando poi i plot twist finali rischiano di generare un effetto comico involontario, si ha la conferma che il pasticcio è completo. E così, mentre il protagonista si ritrova a sgranocchiare occhi umani, lasciando intravedere la possibilità di un sequel, la sensazione è che gli occhi dello spettatore abbiano già visto abbastanza. 