linda
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lunedì 23 marzo 2020
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forzato a tratti.
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Se nella primissima metà del film sembra di star assistendo ad una storia la quale riflette senza troppa poesia la frustrazione di moltissime coppie odierne ci si imbatte poi, senza alcun preavviso, nella visione di immagini le quali sembrano slegarsi sempre più da una trama mediocremente cucita. Gli sguardi, con i quali si potrebbe produrre un film senza che ci sia il minimo dialogo, degli attori protagonisti, per quanto non mediocri, risultano essere a tratti pesantemente e artificiosamente profondi. Carino il finale, troppo veloce però nonostante ci fosse abbastanza tempo per cercare di recuperare la situazone. Complimenti a Sara Ciocca, fin da piccoli si vede i talento.
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psicosara
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lunedì 23 marzo 2020
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tiepido ozpetek
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Bentornato, Regno di Oz-petek!
Bentornati i colori, le terrazze, le sfumature delicate e i sentimenti forti.
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Bentornato, Regno di Oz-petek!
Bentornati i colori, le terrazze, le sfumature delicate e i sentimenti forti.
La Dea Fortuna giunge in una coppia che ormai sembra al capolinea.
E con un pizzico di magia, ridisegna i confini di un sentimento ormai stanco, donandogli nuova linfa.
"𝐿𝑎 𝐷𝑒𝑎 𝐹𝑜𝑟𝑡𝑢𝑛𝑎 𝑒̀ 𝑢𝑛 𝑠𝑒𝑔𝑟𝑒𝑡𝑜, 𝑢𝑛 𝑡𝑟𝑢𝑐𝑐𝑜 𝑚𝑎𝑔𝑖𝑐𝑜. 𝐶𝑜𝑚𝑒 𝑓𝑎𝑖 𝑎 𝑡𝑒𝑛𝑒𝑟𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒 𝑐𝑜𝑛 𝑡𝑒 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑐𝑢𝑛𝑜 𝑎 𝑐𝑢𝑖 𝑣𝑢𝑜𝑖 𝑚𝑜𝑙𝑡𝑜 𝑏𝑒𝑛𝑒?
𝐷𝑒𝑣𝑖 𝑔𝑢𝑎𝑟𝑑𝑎𝑟𝑙𝑜 𝑓𝑖𝑠𝑠𝑜, 𝑝𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖 𝑙𝑎 𝑠𝑢𝑎 𝑖𝑚𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑒, 𝑐ℎ𝑖𝑢𝑑𝑖 𝑑𝑖 𝑠𝑐𝑎𝑡𝑡𝑜 𝑔𝑙𝑖 𝑜𝑐𝑐ℎ𝑖, 𝑙𝑖 𝑡𝑖𝑒𝑛𝑖 𝑏𝑒𝑛 𝑐ℎ𝑖𝑢𝑠𝑖. 𝐸 𝑙𝑢𝑖 𝑡𝑖 𝑠𝑐𝑒𝑛𝑑𝑒 𝑓𝑖𝑛𝑜 𝑎𝑙 𝑐𝑢𝑜𝑟𝑒 𝑒 𝑑𝑎 𝑞𝑢𝑒𝑙 𝑚𝑜𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎 𝑠𝑎𝑟𝑎̀ 𝑝𝑒𝑟 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒 𝑐𝑜𝑛 𝑡𝑒".
Bravi Leo, Accorsi e Trinca. Bello anche riscoprire il Santuario della Fortuna Primigenia che si trova a Roma (Palestrina).
Tuttavia il mio giudizio è tiepido, come il film.
Il mio cuore non batte.
Due stelline su cinque.
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fabio
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lunedì 10 febbraio 2020
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la fortuna va' capita
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Non il meglio di Ozpetek ma resta un film gradevole e niente affatto banale. Già da tempo al regista piace dare lo spunto e lasciare la storia aperta: allo spettatore il compito di capire e poi di concludere.
Il tutto corredato da elementi che funzionano: belle location, ottima musica, un pizzico di vanità che non guasta mai.
Poi c'è la storia, che non è mai una come non è mai uno il protagonista; storia di mezz'età, fatta di crisi e rimpianti, accuse e malinconia. La svolta non manca ma arriva dopo tutto un prìmo tempo passato a sbadigliare.
Pallida interpretazione dei protagonisti maschili, decisamente meglio Jasmine Trinca.
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Non il meglio di Ozpetek ma resta un film gradevole e niente affatto banale. Già da tempo al regista piace dare lo spunto e lasciare la storia aperta: allo spettatore il compito di capire e poi di concludere.
Il tutto corredato da elementi che funzionano: belle location, ottima musica, un pizzico di vanità che non guasta mai.
Poi c'è la storia, che non è mai una come non è mai uno il protagonista; storia di mezz'età, fatta di crisi e rimpianti, accuse e malinconia. La svolta non manca ma arriva dopo tutto un prìmo tempo passato a sbadigliare.
Pallida interpretazione dei protagonisti maschili, decisamente meglio Jasmine Trinca.
I cultori della filmografia del regista non mancheranno l'appuntamento al cinema, gli altri possono anche saltarlo.
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christian liguori
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mercoledì 29 gennaio 2020
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tra “realismo” e “simbolismo”: un film che fa bene all’anima
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L’inizio è la fine e la fine è l’inizio. Una sequenza nei primi minuti dal sapore macabro e spettrale, consequenziale anche alla misteriosa presenza di un individuo ignoto che inquadra, da dietro una macchina da presa, stanze oscure di una villa buia che sembra infestata da fantasmi, ma le urla finali della stessa sequenza da thriller sono reali, di umani. E s’interrompe poi improvvisamente lasciando spazio, per contrasto, all’esordio di una nuova e seconda sequenza completamente differente, gioiosa, allegra, festiva, come se si stesse nella medesima dimora, ma è evidente che è solo illusione, e quella di prima apparteneva a un passato evocato, raggelante, vero che infatti infine ritorna, e così verso la conclusione un’analoga sequenza, che rimanda a quella, ad un passato che, come spesso in effetti si verifica, si ripete tragicamente.
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L’inizio è la fine e la fine è l’inizio. Una sequenza nei primi minuti dal sapore macabro e spettrale, consequenziale anche alla misteriosa presenza di un individuo ignoto che inquadra, da dietro una macchina da presa, stanze oscure di una villa buia che sembra infestata da fantasmi, ma le urla finali della stessa sequenza da thriller sono reali, di umani. E s’interrompe poi improvvisamente lasciando spazio, per contrasto, all’esordio di una nuova e seconda sequenza completamente differente, gioiosa, allegra, festiva, come se si stesse nella medesima dimora, ma è evidente che è solo illusione, e quella di prima apparteneva a un passato evocato, raggelante, vero che infatti infine ritorna, e così verso la conclusione un’analoga sequenza, che rimanda a quella, ad un passato che, come spesso in effetti si verifica, si ripete tragicamente. Soltanto da questa premessa si potrebbe già cogliere la qualità estetica di un film come “La dea fortuna”, la commedia con la “C” maiuscola uscita lo scorso Dicembre 2019 nelle sale italiane e diretta da Ferzan Ozpetek, regista ormai consolidato e maturo. Ma c’è di più: coerentemente ai continui colpi di scena che sviano di continuo lo spettatore creandogli spasmi emotivi interiori di notevole portata, tali da “condannarlo” magicamente al costante pensiero di quel che ha potuto vedere in questo calibratissimo lavoro persino il giorno seguente, il regista qui sorprende pure se stesso, superandosi e superando l’ultimo suo prodotto artistico, “Napoli Velata”.
Sebbene uno dei due attori protagonisti, or dunque non Stefano Accorsi, ma Edoardo Leo, con la sua vis e il suo viso comico non riesca ad essere efficacemente credibile nei momenti drammatici ben presenti durante la visione, il film è un inno alla spontaneità e alla naturalezza come forse non si vedeva ormai nel panorama della commedia italiana da diversi anni.
A tal proposito, la seconda sequenza significativamente è girata con un cellulare: riprende il personaggio interpretato da Accorsi, calzante perfettamente nel ruolo dell’intellettuale freddo e frustrato, aggiudicandosi la palma vincente di migliore attore della pellicola, sempre però dopo i due bambini che possono diventare senz’altro una futura scommessa nel nostro panorama filmico nazionale, sempre più arido.
Vengono fuori le parole più banali perché adatte ad un momento conviviale come possa essere una festa, un ricevimento tra amici. Il bello, però, coerentemente con le continue sorprese che qui il regista ci regala è che spesso durante la visione siamo catapultati in immagini e riprese che richiamano volutamente quella stessa fatta col telefonino, con continui zoom e passaggi da un fuoco ad un altro. È o non è questa una splendida esaltazione anche visiva della naturale spontaneità la quale è “sceneggiata” durante tutto il film?
D’altra parte, la vicenda è ispirata ad una storia vera, e più reale di così non poteva restituircela un professionista della macchina da presa, nonché un maestro dell’equilibrata concertazione di tutti gli strumenti che consentono di produrre quella sinfonia che si chiama cinema. E stando alla prima affermazione, è per questo che la commedia non annoia mai, mentre tenendo conto della seconda è possibile dire che Ozpetek sia in grado di comporre un puzzle, a cominciare da una storia i cui tasselli si rivelano piano piano, per poi smontarsi e rimontarsi da sé fino a raggiungere quell’armonia che è magicamente racchiusa nella sequenza finale al mare, un quadretto di genuina poesia esistenziale, che dimostra quanto l’affetto e l’amore, se davvero prevalessero un po’ più spesso in ognuno di noi potrebbero renderci persone migliori e consentire l’emersione (altamente significativa la scelta di girarla in acqua) di quel bambino che un tempo eravamo e che ancora siamo, dentro, nel profondo. Ma l’armonia non è solo derivante da una sceneggiatura quasi perfetta, è anche visiva di certe scene che sono un contributo alla realizzazione di un collage che è opera di spontanea vitalità e riflessiva psico-presa di coscienza, tutto materia d’indagine di un’esistenza che, difatti, non è mai stata facile. Eppure, due anime innocenti, due piccole creature mature forti e indifese sembrano appartenere da sempre al destino dei due protagonisti, una coppia gay in crisi, che ritroverà la forza di ricominciare e amare grazie all’affetto, grazie all’amicizia, grazie a due bambini, e in una sola parola che le racchiude tutte e tre: grazie all’amore! Diverse scene nel corso del film, di giochi spensierati, ore di studio alternative e litigi devastanti dimostrano come quei due bambini possano essere ricondotti a simboleggiare una sorta di proiezione all’esterno della realtà interiore dei due protagonisti (che è anche la nostra, perché siamo tutti bambini), che solo quando verrà da loro con costrizione del destino (la dea Fortuna è anche questo) pienamente ascoltata, saranno capaci di cambiare quell’esterna, pur limitandosi ad accettare l’inevitabile e l’irreversibile processo “vita-morte” racchiuso nella perdita del loro “caro Cupido” che li ha fatti incontrare, la forza devastante dell’amore dalle mille e labili sfaccettature, che il Caso, la Fortuna, appunto, da dea vuole che siano così. Stiamo parlando della madre dei due bambini.
L’amore nelle sue mille componenti vince nel film, specialmente attraverso una moderna sublimazione del “Fanciullino” del poeta Pascoli, e pertanto, la sfera erotica della stessa forza universale resta giustamente in superficie, solo citata, nominata, riferita, perché nella sua genuina naturalezza “La dea fortuna” è una commedia pura. Perché, in fondo, tale è il nostro destino, crudele e buono, docile e violento, tenero e selvaggio, sintesi di opposti infiniti di cui solo a noi tocca scegliere da che parte stare.
Nella seconda parte della pellicola compare Barbara Alberti, nota maggiormente come scrittrice e sceneggiatrice, ottima nella resa d’un personaggio aristocratico, finto e formale, stonante tuttavia con tutto quanto finora descritto e visto prima della sua comparsa come nonna dei bambini nel film. Ma è personificazione del male, bugiardo ingannatore, doppia faccia di quella stessa dea Fortuna presente sin dal titolo, doppia faccia maligna da non evitare, ma affrontare, e così allontanare.
Una commedia così tesa in equilibrio tra “realismo” e “simbolismo” non poteva non accogliere tra i suoi caratteri fondamentali anche quello della sensibilità, che conduce spesso lo spettatore alla commozione, soprattutto quando il bambino ripete un gesto analogo a quello che gli aveva insegnato tempo prima uno dei due protagonisti (Edoardo Leo alias Alessandro), denso di metafora e pietà, tenendo anche conto dell’obiettivo sperato e non raggiunto, quindi infranto (almeno in quel momento) da parte del bambino.
Per non parlare poi della sensibilità adottata come strada maestra alternativamente alla denuncia sociale programmatica per comunicare finalmente e in conclusione di tutta questa meravigliosa storia che, analogamente a quanto ha dichiarato lo stesso regista di recente, “si è genitori dalla cintura in su!”. Insomma, qui è possibile ed opportuno azzardare che Ozpetek ha, attraverso una sola pellicola, innovato completamente il paradigma di fondo della vera Commedia all’Italiana, proponendo una via forse anche più efficace, sempre tenendo conto dei tempi che stiamo vivendo: ha cioè sostituito la poesia alla denuncia per condannare ugualmente un aspetto sociale contemporaneo molto forte e dibattuto, ossia il “problema” delle coppie omogenitoriali. Quindi, incredibilmente il regista si ispira alla realtà e propone un cambiamento della stessa facendo breccia nel cuore con l’arma più nobile per comunicare un messaggio di denuncia: l’arte, la poesia, la musica. Perché è rilevante assai anche la colonna sonora, che tocca livelli aulici ed emozionanti quando si sente cantare “Luna diamante” da un’icona della storia della musica italiana quale debba essere considerata Mina.
E, forse inconsapevolmente, nel tentativo di rinnovare con audacia ed efficacia i moduli stilistici della “Commedia d’oro”, Ozpetek non la stravolge del tutto, consapevole della sua importanza aurea nella storia del nostro cinema, e così inserisce all’interno del cast una serie di personaggetti vivaci e divertenti (l’infermiera su tutte) che sono una valida riproposizione in tempi moderni dei caratteristi che fecero grande il genere “magno” del cinema nazionale.
Pur subendo un rallentamento di montaggio nelle sequenze del viaggio e dell’arrivo in Sicilia (tentativo forse di rendere la visualizzazione di un viaggio dell’anima intorno a se stessa?), stando alla luce di tutte queste considerazioni, concludo affermando che “La dea fortuna” è uno dei capolavori del cinema contemporaneo, e non solo italiano: meriterebbe almeno una Nomination all’Oscar. Dubitando che questo possa accadere, sono però altrettanto sicuro che in futuro di un film che fa bene all’anima e al cuore non si potrà tacere: mai…
P.S- Fine la scelta del nome di “Lega lombarda” per la via presso cui risiede la coppia gay.
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roberto val
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martedì 28 gennaio 2020
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la copia sbiadita dei suoi film non basta più.
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Una fotocopia brutta e sbiadita non è più sufficiente a salvare questo film di Ozpetek rispetto ai colori di un glorioso passato. La Dea Fortuna è solo un debole e continuo autocitarsi che rende questa pellicola fastidiosa, a tratti forzata, non realistica, poco credibile, innaturale e con quel solito sapore snob e radical chic che però davvero ha fatto il suo tempo. Accorsi e Leo a volte cadono nel "macchiettismo" , rivelando abissali differenze in termini di prestazioni attoriali tra i due. Le Fate ignoranti non ci sono più nel 2020 e Il finale è l'apoteosi della bruttezza, del ridicolo, è sola esasperazione, l'orrendo supremo per recitazione, con una Barbara Alberti megera che è insuperabilmente imbarazzante.
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Una fotocopia brutta e sbiadita non è più sufficiente a salvare questo film di Ozpetek rispetto ai colori di un glorioso passato. La Dea Fortuna è solo un debole e continuo autocitarsi che rende questa pellicola fastidiosa, a tratti forzata, non realistica, poco credibile, innaturale e con quel solito sapore snob e radical chic che però davvero ha fatto il suo tempo. Accorsi e Leo a volte cadono nel "macchiettismo" , rivelando abissali differenze in termini di prestazioni attoriali tra i due. Le Fate ignoranti non ci sono più nel 2020 e Il finale è l'apoteosi della bruttezza, del ridicolo, è sola esasperazione, l'orrendo supremo per recitazione, con una Barbara Alberti megera che è insuperabilmente imbarazzante.La Trinca, definirla attrice mi sembra un paradosso, emoziona solo quando muore. Insomma, diciamocela tutta, un film davvero mediocre e non basta una colonna sonora magnifica a salvare anche una regia che lascia stranamente molto a desiderare rispetto alla decisa perfezione stilistica dietro la macchina da presa del regista turco.
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elgatoloco
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lunedì 27 gennaio 2020
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dea fortuna letteralmente intesa
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Questo"La Dea Fortuna"di Ferzan Ozpetek, anche come sempre cosceneggiatore(2019)è veramente il film della riconciliazione con la vita, nel senso della sua necessaria accettazione, à la Friedrich Nietzsche(amor fati)e non importa poi sapere se il regista turco naturalizzato italiano ne sia un appassionato cultore o meno. Certo è che"Fortuna"qui è letteralmente o meglio etimologicamente intesa, come la dea della srote, buona o cattiva che sia, mentre nelle lingue moderne, in specie in italiano, l'accezione del lemma sembra virare troppo facilmente solo verso la direzione postiiva: qui, nel film c'è una morte(l'attrice Jasmine Trinca interpreta molto bene il ruolo, come in quello della madre baronessa è più che notevole Barbara Alberti), i suoi due figli, un bambino e una preadolescente, rimasti orfani e una coppia composta da Alessandro e Arturo(non si dirà più"coppia gay"(insopportabile sem0lificazione dei sentimenti), anch'essa resa ottimamente da Stefano Accorsi e Edoardo Leo, che vive l'alternanza di affetti e rovesci sentimentali che caratterizza ogni coppia più o meno(qui siamo in questo secondo versante, in modo anche abbastanza deciso), c'è il pianto, il riso, la ribellione, contro l'avita dimora e l'avita anziana signora, resa appunto, irosamente(ma con sciuro humor)dalla scrttrice Alberti.
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Questo"La Dea Fortuna"di Ferzan Ozpetek, anche come sempre cosceneggiatore(2019)è veramente il film della riconciliazione con la vita, nel senso della sua necessaria accettazione, à la Friedrich Nietzsche(amor fati)e non importa poi sapere se il regista turco naturalizzato italiano ne sia un appassionato cultore o meno. Certo è che"Fortuna"qui è letteralmente o meglio etimologicamente intesa, come la dea della srote, buona o cattiva che sia, mentre nelle lingue moderne, in specie in italiano, l'accezione del lemma sembra virare troppo facilmente solo verso la direzione postiiva: qui, nel film c'è una morte(l'attrice Jasmine Trinca interpreta molto bene il ruolo, come in quello della madre baronessa è più che notevole Barbara Alberti), i suoi due figli, un bambino e una preadolescente, rimasti orfani e una coppia composta da Alessandro e Arturo(non si dirà più"coppia gay"(insopportabile sem0lificazione dei sentimenti), anch'essa resa ottimamente da Stefano Accorsi e Edoardo Leo, che vive l'alternanza di affetti e rovesci sentimentali che caratterizza ogni coppia più o meno(qui siamo in questo secondo versante, in modo anche abbastanza deciso), c'è il pianto, il riso, la ribellione, contro l'avita dimora e l'avita anziana signora, resa appunto, irosamente(ma con sciuro humor)dalla scrttrice Alberti. "Le vie c'est toujours amour et misères, la vie c'est toujours la me^me chanson"(La vita è sempre amore e miserie, èp sempre la stessa canzone)-Paul Fort dixit, da"Comme hier"e questo potrebbe essere un suggello al film di questo autore ormai tra i più importanti di quanto rimane di un cinema italiano che ha da tempo, a parte questi pochi film, perso la sua"spinta propulsiva"per usare un'espressione ormai consolidata in ambito politologico... invece. Intepreti azzeccati, sceneggatura ben scrtta, idea di fondo precisa, per non dire della location (Locus mortuorum, viene da dire)precisa e archittettoniucamente e in genere artisticamente più che adeguata. Uno di quei film difficili fa scordare,,, El Gato
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sergio ialacci
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lunedì 27 gennaio 2020
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il mestiere c è; la propaganda, pure.
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Si torna indietro nel tempo guardando questo ultimo film di Ozpetek, non tanto per gli ambienti, la fotografia ed i personaggi ormai interpretati dai medesimi "iconici" attori, quanto per quel senso di retorica propagandistica, che si avverte palesemente nel guardare questo lavoro. Ci sono tutti i canoni, niente sembra lasciato al caso. Epperò, da un regista intelligente come questo forse ci si aspettava una esposizione, seppur di parte, alquanto elegante e sottile, ovvero agli antipodi di quello che invece è stato fatto. Tra tutte, si arriva alla demonizzazione figurativa della famiglia tradizionale in un contesto problematico di adozione con la grottesca scena della nonna-orco; la Alberti, non a caso, è poi perfetta per il ruolo, strega quasi fiabesca.
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Si torna indietro nel tempo guardando questo ultimo film di Ozpetek, non tanto per gli ambienti, la fotografia ed i personaggi ormai interpretati dai medesimi "iconici" attori, quanto per quel senso di retorica propagandistica, che si avverte palesemente nel guardare questo lavoro. Ci sono tutti i canoni, niente sembra lasciato al caso. Epperò, da un regista intelligente come questo forse ci si aspettava una esposizione, seppur di parte, alquanto elegante e sottile, ovvero agli antipodi di quello che invece è stato fatto. Tra tutte, si arriva alla demonizzazione figurativa della famiglia tradizionale in un contesto problematico di adozione con la grottesca scena della nonna-orco; la Alberti, non a caso, è poi perfetta per il ruolo, strega quasi fiabesca. A questa viene contrapposta la soluzione che deve "passare" come più normale, come l'amore omosessuale che salva i bambini e che quindi è capace - più di tutti - di garantire un lieto futuro ai pargoli. Si arriva ai buoni e i cattivi per la causa, e senza tanti complimenti: a mio avviso, caduta di stile notevole per un regista di questo spessore. Rimane un lavoro ovviamente ben strutturato, con attori bravi ma che cominciano a soffrire dei medesimi ruoli nei medesimi film. C'è il contesto, ma anche, e soprattutto, bassa propaganda.
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emanuele 1968
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giovedì 23 gennaio 2020
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temi sociali
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Un film basato su una storia vera.
Temi sociali difficili.
Auguri e buona fortuna.
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opossumino
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lunedì 20 gennaio 2020
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lirico
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Il film è lirico dal principio alla fine. Il lirismo consiste nelle immagini, nei dialoghi, nei personaggi, nelle sequenze. L'intreccio passa in secondo piano. Il mio momento di maggiore commozione è stato durante gli scambi di battute nella coppia in cui Filippo dialoga con la moglie. L'Alzheimer è un tema delicato, e la scena è davvero poetica, toccante.
Per certi versi mi è sembrata una versione gay di Pane e tulipani, anche se nell'opera di Silvio Soldini i dialoghi sono particolarmente curati e davvero memorabili. Però trovo che sia un altro esempio di felice uscita del cinema italiano dagli stereotipi della 'commedia all'italiana'.
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Il film è lirico dal principio alla fine. Il lirismo consiste nelle immagini, nei dialoghi, nei personaggi, nelle sequenze. L'intreccio passa in secondo piano. Il mio momento di maggiore commozione è stato durante gli scambi di battute nella coppia in cui Filippo dialoga con la moglie. L'Alzheimer è un tema delicato, e la scena è davvero poetica, toccante.
Per certi versi mi è sembrata una versione gay di Pane e tulipani, anche se nell'opera di Silvio Soldini i dialoghi sono particolarmente curati e davvero memorabili. Però trovo che sia un altro esempio di felice uscita del cinema italiano dagli stereotipi della 'commedia all'italiana'. In effetti non credo sia facile decidere se si tratta di una commedia o di un dramma. Di certo è un testo molto vitale, che ti afferra nelle tue parti più delicate e te le porta a spasso.
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opossumino
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lunedì 20 gennaio 2020
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lirico
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Il film è lirico dal principio alla fine. Il lirismo consiste nelle immagini, nei dialoghi, nei personaggi, nelle sequenze. L'intreccio passa in secondo piano. Il mio momento di maggiore commozione è stato durante gli scambi di battute nella coppia in cui Filippo dialoga con la moglie. L'Alzheimer è un tema delicato, e la scena è davvero poetica, toccante.
Per certi versi mi è sembrata una versione gay di Pane e tulipani, anche se nell'opera di Silvio Soldini i dialoghi sono particolarmente curati e davvero memorabili. Però trovo che sia un altro esempio di felice uscita del cinema italiano dagli stereotipi della 'commedia all'italiana'.
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Il film è lirico dal principio alla fine. Il lirismo consiste nelle immagini, nei dialoghi, nei personaggi, nelle sequenze. L'intreccio passa in secondo piano. Il mio momento di maggiore commozione è stato durante gli scambi di battute nella coppia in cui Filippo dialoga con la moglie. L'Alzheimer è un tema delicato, e la scena è davvero poetica, toccante.
Per certi versi mi è sembrata una versione gay di Pane e tulipani, anche se nell'opera di Silvio Soldini i dialoghi sono particolarmente curati e davvero memorabili. Però trovo che sia un altro esempio di felice uscita del cinema italiano dagli stereotipi della 'commedia all'italiana'. In effetti non credo sia facile decidere se si tratta di una commedia o di un dramma. Di certo è un testo molto vitale, che ti afferra nelle tue parti più delicate e te le porta a spasso.
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