fabiofeli
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venerdì 4 gennaio 2019
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"andiamo di là!"
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In primo piano personaggi un po’ strambi, popolani e/o contadini, intonano nenie e canti tradizionali con l’accompagnamento di fisarmoniche ed organetti; sembra di assistere alla tradizionale “Pasquella di Natale” cantata, suonata e ballata tuttora nei paesi del centro-Italia. In secondo piano un bambino di famiglia borghese benestante, intabarrato in un caldo cappotto contro i rigori del gelo, li guarda di traverso e con sospetto. Viktor (Tomasz Kot) sta girando con la sua compagna per paesi e campagne nella Polonia del 1949 alla ricerca di talenti musicali: incide sul nastro di un registratore i canti citati sopra per fare una prima selezione per conto dei funzionari del POUP (il partito operaio unificato polacco) che dirigono quella che nel 1952 diventerà la Repubblica Popolare di Polonia, un paese satellite della Russia di Stalin.
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In primo piano personaggi un po’ strambi, popolani e/o contadini, intonano nenie e canti tradizionali con l’accompagnamento di fisarmoniche ed organetti; sembra di assistere alla tradizionale “Pasquella di Natale” cantata, suonata e ballata tuttora nei paesi del centro-Italia. In secondo piano un bambino di famiglia borghese benestante, intabarrato in un caldo cappotto contro i rigori del gelo, li guarda di traverso e con sospetto. Viktor (Tomasz Kot) sta girando con la sua compagna per paesi e campagne nella Polonia del 1949 alla ricerca di talenti musicali: incide sul nastro di un registratore i canti citati sopra per fare una prima selezione per conto dei funzionari del POUP (il partito operaio unificato polacco) che dirigono quella che nel 1952 diventerà la Repubblica Popolare di Polonia, un paese satellite della Russia di Stalin. Non c’è molto di notevole dal punto di vista musicale, eccetto una canzone interpretata da due voci femminili : una delle due voci appartiene a Zula (Joanna Kulig), una bella ragazza piena di talento e di verve, che sta per scatenare uno tsunami nella vita di Viktor. Sprecare tempo ed energie per cori polacchi che santificano il “compagno” Stalin non se ne parla. C’è la soluzione emigrazione da Berlino est, ma Viktor rimane solo perché Zula non lo segue. Nelle “caves” di Parigi suona il piano in un trio jazz e si stordisce con l’alcool. Zula riappare, perché ha sposato un italiano per avere il passaporto verso l’ovest. Reinterpreta il suo pezzo forte, che è valido come canzone popolare antica, lied o romanza di lirica operistica, e perfino in chiave cool jazz: ne esce un disco formidabile. Ma tra i due ci sono altri fraintendimenti e diffidenze in altri episodi nella Jugoslavia (quella di Tito), a Parigi e ancora in Polonia: non sarà che l’una o l’altro, o tutti e due sono spie in campo avverso? …
Pawlikowski descrivendo Viktor e Zula parla dei propri genitori: due grandi musicisti, ma una vera frana come padre e madre. Per gli anni del secondo dopoguerra non può che scegliere un rigoroso B/N, perché i colori in quella epoca – afferma il regista - erano verdi scuri, marroni e grigi come li raffigura Ermanno Olmi in “Torneranno a fiorire i prati”. Il formato di ripresa è strano e inconsueto; all’inizio sembra quasi un 36x36, una immagine quadrata come quella che scaturiva dalle macchine fotografiche a pozzetto, poi un 4:3. Le scene più importanti si svolgono in una chiesa abbandonata con il tetto scoperchiato, un luogo metafisico che sembra quello di Stalker di Tarkoski: “un labirinto di gallerie in disfacimento, invase dall’acqua” (così lo descrive il Dizionario dei Film Mereghetti del 2011). L’acqua qui non è allo stato liquido, ma condensato in ghiaccio e neve, e non c’è neanche “il premio della stanza segreta”; o forse sì, visto che i due finalmente sono d’accordo e scelgono insieme cosa fare e dove andare. L’ovest a lungo sognato ha svelato il suo bluff ricattatorio, e anche l’est ormai si copre di ridicolo scimmiottando l’ovest con un improbabile cha-cha-cha che neanche la peggiore Rai avrebbe potuto inventare. Alla fine Zula opta per l’est quando dice “Andiamo di là!” e Viktor è d’accordo: c’è il vantaggio che di là almeno – anche se per poco – si parla la propria lingua. E la musica è quella di casa. Pawlikowski spiazza tutti con il suo melò, palma d’oro a Cannes: da non mancare.
Valutazione *** e ½
FabioFeli
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cinefoglio
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lunedì 21 gennaio 2019
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istantanea di cold war
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Pawlikowski, che ci aveva deliziato con il bianco e nero di Ida, ritorna con un'opera nel dna romantica. Non un capolavoro, ma sicuramente un bel film, che attraversa gli anni e i confini della Cortina, percorrendo il desiderio dei “due cuori” con un futuro geograficamente incerto.
Il più grande difetto delle pellicole colme di ellissi temporali è la sensazione nello spettatore di essersi perso qualcosa tra un salto e l'altro, o non aver avuto abbastanza tempo e attenzione per fluire con gli avvenimenti.
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Pawlikowski, che ci aveva deliziato con il bianco e nero di Ida, ritorna con un'opera nel dna romantica. Non un capolavoro, ma sicuramente un bel film, che attraversa gli anni e i confini della Cortina, percorrendo il desiderio dei “due cuori” con un futuro geograficamente incerto.
Il più grande difetto delle pellicole colme di ellissi temporali è la sensazione nello spettatore di essersi perso qualcosa tra un salto e l'altro, o non aver avuto abbastanza tempo e attenzione per fluire con gli avvenimenti. Cold War si dimostra ben bilanciato, e trova il suo punto di forza in un delicato “colore”, e da inquadrature moderne e sensibili dove il formato corto non riesce pienamente a comprimere ed ingabbiare la volontà dei protagonisti nell'inseguire il sentimento più nobile.
Ma difatti, la musica è la vera protagonista della pellicola, sia come elemento che unisce la cantante al suo autore, sia come eredità di quel folklore scosso dalla guerra, che prima era memoria, poi strumento del partito e lode al grande leader. Quella musica che descrive la solitudine dei più poveri e il clima dei salotti parigini, dalla tradizione immutabile all'avanguardia del jazz, ai primi passi ballati sul rock and roll e sulle canzonette estive, alla maestosità del teatro.
Tornando a casa sul treno, impossibile non riascoltare la colonna sonora, immaginando la neve, ricordando i suoni, desiderando di vivere quella storia ancora una volta.
21/12/2018
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gbavila
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domenica 2 giugno 2019
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la fune a scimmia
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Nella Polonia del dopoguerra le macerie non sono solo quelle materiali ma anche quelle morali e spirituali, anzi queste sono ancora più devastanti pechè molto più irriducibili e riguardano il linguaggio, la comunicazione. Le parole hanno perso un significato comune e alla guerra armata è subentrata la "guerra fredda" e un nuovo dominio, ancora più devastante perchè si rivolge alle coscienze per un esclusivo bisogno ideologico. In questa guerra la difesa è la chiusura, l'erezione di muri, impedire gli sconfinamenti morali e materiali. Ne fanno immediatamente le spese i sentimenti di passione di due innamorati che non riescono a vivere la loro unione senza ferirsi continuamente fino a risolversi con l'autodistruzione.
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Nella Polonia del dopoguerra le macerie non sono solo quelle materiali ma anche quelle morali e spirituali, anzi queste sono ancora più devastanti pechè molto più irriducibili e riguardano il linguaggio, la comunicazione. Le parole hanno perso un significato comune e alla guerra armata è subentrata la "guerra fredda" e un nuovo dominio, ancora più devastante perchè si rivolge alle coscienze per un esclusivo bisogno ideologico. In questa guerra la difesa è la chiusura, l'erezione di muri, impedire gli sconfinamenti morali e materiali. Ne fanno immediatamente le spese i sentimenti di passione di due innamorati che non riescono a vivere la loro unione senza ferirsi continuamente fino a risolversi con l'autodistruzione. Pawlikoski mette in evidenza il contesto a partire dalle scene iniziali in cui la ricerca musicologica di Wiktor percorre la tradizione folcloristica dove figure poverissime sono diventate fantasmi di una memoria che non produce felicità, gli strumenti musicali sono stravolti (la fisarmonica è alimentata da mantici a pedale) e i canti sono freddi e tragici. Un bimbo (il regista?) li contempla perplesso senza acun divertimento e i suoni sembrano uscire da automi insensibili. In questo clima Zula, che fugge da una triste vicenda famigliare e con la libertà vigilata, e Wiktor vivono la loro continua caduta nonostante la possibilità di salvarsi e arrivare a una felicità sia a portata di mano. Ma il linguaggio non li aiuta e Zula scopre troppo tardi il significato della metafora, del senso delle parole della sua canzone: "il pendolo ha ucciso il tempo", spiega la poetessa, "che il tempo non conta quando si è innamorati".
Mi è tornato in mente un capitolo del Moby dick, "la fune a scimmia", dove i balenieri si legavano in coppia ai due capi di una fune e alla cintura col patto d'onore di non tagliarla nel caso funesto conseguente alla pericolosa lavorazione della balena dove uno dall'alto della nave garantiva il fragile equilibrio dell'altro sulla groppa della balena. L'immagine riprendeva quella dei suonatori di organetto legati alla scimmietta che ballava.
Qesto legame indissolubile porta i due amanti alla loro inevitabile conseguenza che richiama la scena iniziale del bimbo (ancora il regista?) con la stessa perplessità. Ora ci accorgiamo che questo sviluppo storico è anche il nostro, dei nostri tempi, nell'assurdo gemellaggio non solo con la Polonia, ma anche con molti altri popoli, che non riescono a trovare un linguaggio comune e nuovi muri si alzano per rendere le metafore sempre più incomprensibili.
Bellissime le musiche, fino alla fine, con le "Variazioni Goldberg" di Bach eseguite da Glenn Gould. Grande film e grande regia.
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cinefila part time
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martedì 23 luglio 2019
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passione al calor bianco
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Un uomo e una donna, un musicista compositore e una cantante, si amano e si rincorrono nell'Europa del dopoguerra passando e ripassando dolorosamente i confini ella cortina di ferro. Non possono vivere separati nè ce la fanno a vivere assieme perché troppo alte sono le aspettative del loro amore che si scontra con i compromessi della realtà ("l'amore è amore" dice lui; "io so solo che non sarei mai partita senza di te" risponde lei).
Un film asciutto e nitido come il bianco e nero con cui è costruito, dove la forte passione che lega i protagonisti non cade mai nel sentimentalismo stucchevole in quanto bastano qualche sguardo, due parole, i silenzi per descrivere il legame tra i due (non per niente ha ricevuto un premio per la regia).
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Un uomo e una donna, un musicista compositore e una cantante, si amano e si rincorrono nell'Europa del dopoguerra passando e ripassando dolorosamente i confini ella cortina di ferro. Non possono vivere separati nè ce la fanno a vivere assieme perché troppo alte sono le aspettative del loro amore che si scontra con i compromessi della realtà ("l'amore è amore" dice lui; "io so solo che non sarei mai partita senza di te" risponde lei).
Un film asciutto e nitido come il bianco e nero con cui è costruito, dove la forte passione che lega i protagonisti non cade mai nel sentimentalismo stucchevole in quanto bastano qualche sguardo, due parole, i silenzi per descrivere il legame tra i due (non per niente ha ricevuto un premio per la regia).
Non finisce bene, vi avverto, semplicemente finisce come deve finire.
Il regista dice che è un distillato della storia dei suoi genitori; alla fine sui titoli di coda mentre si aspetta di leggere i nomi delle canzoni della colonna sonora, si spera solo che per loro sia andata meglio che per Wiktor e Zula, i bellissimi dannati protagonisti di Cold War.
Nota di costume: nell'unico altro film del regista che ho visto "Ida", una delle canzoni della colonna sonora era 24000 baci di Celentano e anche in questo film se ne sentono 5 secondi... Una canzone molto amata nei paesi dell'Est.
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shota
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mercoledì 2 gennaio 2019
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perfetto nel suo genere
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Il titolo del fim è alquanto fuorviante, nel senso che l'ambientazione della guerra fredda è del tutto inessenziale. E' un film d'amore, e potrebbe essere ambientato in un qualunque periodo storico (a patto che questo periodo storico provochi ogni sorta di difficoltà all'amore dei due, come d'altra parte ben sapeva un certo Alessandro Manzoni). Il riferimeno a Manzoni è da intendersi comunque in modo molto restrittivo: 'Cold War' a differenza dei 'Promessi Sposi' non utilizza affatto una storia d'amore per parlare d'altro, il film parla in effetti SOLO di questa storia d'amore. Forse, quello che ha in comune veramente coi Promessi Sposi è che anche questo film (almeno potenzialmente) è un vero classico, seppur solo nel suo genere.
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Il titolo del fim è alquanto fuorviante, nel senso che l'ambientazione della guerra fredda è del tutto inessenziale. E' un film d'amore, e potrebbe essere ambientato in un qualunque periodo storico (a patto che questo periodo storico provochi ogni sorta di difficoltà all'amore dei due, come d'altra parte ben sapeva un certo Alessandro Manzoni). Il riferimeno a Manzoni è da intendersi comunque in modo molto restrittivo: 'Cold War' a differenza dei 'Promessi Sposi' non utilizza affatto una storia d'amore per parlare d'altro, il film parla in effetti SOLO di questa storia d'amore. Forse, quello che ha in comune veramente coi Promessi Sposi è che anche questo film (almeno potenzialmente) è un vero classico, seppur solo nel suo genere. E' un film d'amore, ma posso dire in tutta sincerità che è il più bel film d'amore che io abbia mai visto. Il fatto che sia una storia vera facilita il compito, come sempre, ma non c'è nessun rilievo da aggiungere: il film è praticamente perfetto.
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cardclau
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venerdì 21 dicembre 2018
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la storia e la storia
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Il film di Pawel Pawlikowski Cold War è un magnifico film in bianco e nero su una splendida, per quanto travagliata, storia d’amore, nella Polonia dell’immediato dopoguerra. Il regista lo dedica ai suoi genitori, per cui noi spettatori non possiamo non considerarlo anche una potente riflessione autobiografica, della propria storia, personalissima, in cui sopravvivenza e vita se la giocano a rimpiattino. Il bianco e nero, sapientissimo, conferisce alle immagini quella essenzialità necessaria per non essere “distratti” dalle immagini, e per “sentire” il film nella sua globalità. La Polonia dell’immediato dopoguerra? Non è un caso che l’estrema difficoltà ad elaborare quel difficilissimo e terribilissimo periodo storico venga a galla in continuazione.
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Il film di Pawel Pawlikowski Cold War è un magnifico film in bianco e nero su una splendida, per quanto travagliata, storia d’amore, nella Polonia dell’immediato dopoguerra. Il regista lo dedica ai suoi genitori, per cui noi spettatori non possiamo non considerarlo anche una potente riflessione autobiografica, della propria storia, personalissima, in cui sopravvivenza e vita se la giocano a rimpiattino. Il bianco e nero, sapientissimo, conferisce alle immagini quella essenzialità necessaria per non essere “distratti” dalle immagini, e per “sentire” il film nella sua globalità. La Polonia dell’immediato dopoguerra? Non è un caso che l’estrema difficoltà ad elaborare quel difficilissimo e terribilissimo periodo storico venga a galla in continuazione. Testimoniata dalle tematiche ad essa inerenti che emergono, che ne sono in qualche modo correlate, o che la fanno da padrona, nei film polacchi. Anche a più di 85 anni da quel periodo di tenebra, dove le forze del male sembravano decisamente prevalere, e avere un invincibile sopravvento. Ma proviamolo rapidamente a rivederlo, col massimo rispetto per le innumerevoli vite umane, in gran parte ignote, da essa fisicamente e spiritualmente frantumate. L’inarrestabile dramma comincia con l’invasione nazista della Polonia nel 1939, con il contributo dei bolscevichi di Stalin. Hitler e i suoi accoliti considerano gli slavi una razza subumana, da rendere schiava ai bisogni del Terzo Reich, per non parlare degli ebrei. Dal 1939 alla primavera del 1945, con una impressionante organizzazione e pervicacia criminale che non presenta alcun momento di requie, malgrado gli insuccessi al fronte dal 1943, fanno morire, con una anaffettività e sadismo assoluto, circa tre milioni di Polacchi e circa tre milioni di Ebrei Polacchi, cercando inoltre di spazzarne via, totalmente, la classe dirigente. In questo vengono aiutati da Stalin, come testimonia l’orrore degli avvenimenti di Katyn. Stalin inoltre si rimangerà le promesse fatte a Churchill a Yalta nel febbraio 1945, di una Polonia democratica, fondata sul pluralismo delle forze politiche. Fa arrestare e internare nei gulag sovietici i rappresentanti delle forze politiche a lui non ossequienti, e provvede a fare della Polonia una serva obbediente della dittatura sovietica. Il film comincia da qui, e come ci possiamo immaginare, i personaggi partono con le ossa già rotte in partenza, ma non desiderano solo sopravvivere, ma anche vivere. La storia d’amore di Zula (una splendida Joanna Kulig) e Wiktor (uno splendido Tomasz Kot) è avvincente, malgrado la comprensibile discontinuità per la Storia (sociale) e per la storia (personale). Pur nella drammaticità costante, non mancano dei momenti strepitosi, come quando lei, in un momento di intimità, gli dice che fa la spia sul suo conto, per volere delle autorità, lui si allontana mandandola a quel paese, lei cerca di seguirlo, poi lo manda a sua volta a quel paese, poi si tuffa nel fiume vicino e facendo il “morto” canta una canzone dolcissima. L’essere umano può essere sorprendente.
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