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domenica 13 gennaio 2019
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lento, freddo, grigio!
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Più che un film in bianco e nero direi che è un film in grigio, quel colore grigio che ti spegne fino alla noia più totale. Una storia d'amore ambientata nella Polonia degli anni '50 lenta e priva di verve. I personaggi sono spenti, piatti, freddi, privi di carattere e di passione.
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giuseppe
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sabato 12 gennaio 2019
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un bianco e nero da brivido
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Il bianco e nero è lo sfondo magistrale di questo film, ma è anche il tema, la storia, i paesaggi ed i meravigliosi primi piani e dettagli ad esso sottesi.
Menzione particolare ai primi balli folkloristici ingenui e felici sottolineati da stupendi controluce e costumi, diventati dopo rigidi rituali della propaganda del PCUS.
Storia intima vissuta del regista e raccontata per immagini, ma attuale, che ci dovrebbe ricordare quali e quanti pericoli corre ancora l'Europa.
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giuliana
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mercoledì 9 gennaio 2019
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delusione
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COLD WAR decisamente perfetto sul piano formale, attrice bravissima ma freddo, non trasmette l'intensità e il senso della storia d'amore né del cambiamento storico epocale in cui è contestualizzata .... deludente rispetto alle aspettative e dimenticabile, da vedere come una bella mostra di fotografia.
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fabiofeli
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venerdì 4 gennaio 2019
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"andiamo di là!"
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In primo piano personaggi un po’ strambi, popolani e/o contadini, intonano nenie e canti tradizionali con l’accompagnamento di fisarmoniche ed organetti; sembra di assistere alla tradizionale “Pasquella di Natale” cantata, suonata e ballata tuttora nei paesi del centro-Italia. In secondo piano un bambino di famiglia borghese benestante, intabarrato in un caldo cappotto contro i rigori del gelo, li guarda di traverso e con sospetto. Viktor (Tomasz Kot) sta girando con la sua compagna per paesi e campagne nella Polonia del 1949 alla ricerca di talenti musicali: incide sul nastro di un registratore i canti citati sopra per fare una prima selezione per conto dei funzionari del POUP (il partito operaio unificato polacco) che dirigono quella che nel 1952 diventerà la Repubblica Popolare di Polonia, un paese satellite della Russia di Stalin.
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In primo piano personaggi un po’ strambi, popolani e/o contadini, intonano nenie e canti tradizionali con l’accompagnamento di fisarmoniche ed organetti; sembra di assistere alla tradizionale “Pasquella di Natale” cantata, suonata e ballata tuttora nei paesi del centro-Italia. In secondo piano un bambino di famiglia borghese benestante, intabarrato in un caldo cappotto contro i rigori del gelo, li guarda di traverso e con sospetto. Viktor (Tomasz Kot) sta girando con la sua compagna per paesi e campagne nella Polonia del 1949 alla ricerca di talenti musicali: incide sul nastro di un registratore i canti citati sopra per fare una prima selezione per conto dei funzionari del POUP (il partito operaio unificato polacco) che dirigono quella che nel 1952 diventerà la Repubblica Popolare di Polonia, un paese satellite della Russia di Stalin. Non c’è molto di notevole dal punto di vista musicale, eccetto una canzone interpretata da due voci femminili : una delle due voci appartiene a Zula (Joanna Kulig), una bella ragazza piena di talento e di verve, che sta per scatenare uno tsunami nella vita di Viktor. Sprecare tempo ed energie per cori polacchi che santificano il “compagno” Stalin non se ne parla. C’è la soluzione emigrazione da Berlino est, ma Viktor rimane solo perché Zula non lo segue. Nelle “caves” di Parigi suona il piano in un trio jazz e si stordisce con l’alcool. Zula riappare, perché ha sposato un italiano per avere il passaporto verso l’ovest. Reinterpreta il suo pezzo forte, che è valido come canzone popolare antica, lied o romanza di lirica operistica, e perfino in chiave cool jazz: ne esce un disco formidabile. Ma tra i due ci sono altri fraintendimenti e diffidenze in altri episodi nella Jugoslavia (quella di Tito), a Parigi e ancora in Polonia: non sarà che l’una o l’altro, o tutti e due sono spie in campo avverso? …
Pawlikowski descrivendo Viktor e Zula parla dei propri genitori: due grandi musicisti, ma una vera frana come padre e madre. Per gli anni del secondo dopoguerra non può che scegliere un rigoroso B/N, perché i colori in quella epoca – afferma il regista - erano verdi scuri, marroni e grigi come li raffigura Ermanno Olmi in “Torneranno a fiorire i prati”. Il formato di ripresa è strano e inconsueto; all’inizio sembra quasi un 36x36, una immagine quadrata come quella che scaturiva dalle macchine fotografiche a pozzetto, poi un 4:3. Le scene più importanti si svolgono in una chiesa abbandonata con il tetto scoperchiato, un luogo metafisico che sembra quello di Stalker di Tarkoski: “un labirinto di gallerie in disfacimento, invase dall’acqua” (così lo descrive il Dizionario dei Film Mereghetti del 2011). L’acqua qui non è allo stato liquido, ma condensato in ghiaccio e neve, e non c’è neanche “il premio della stanza segreta”; o forse sì, visto che i due finalmente sono d’accordo e scelgono insieme cosa fare e dove andare. L’ovest a lungo sognato ha svelato il suo bluff ricattatorio, e anche l’est ormai si copre di ridicolo scimmiottando l’ovest con un improbabile cha-cha-cha che neanche la peggiore Rai avrebbe potuto inventare. Alla fine Zula opta per l’est quando dice “Andiamo di là!” e Viktor è d’accordo: c’è il vantaggio che di là almeno – anche se per poco – si parla la propria lingua. E la musica è quella di casa. Pawlikowski spiazza tutti con il suo melò, palma d’oro a Cannes: da non mancare.
Valutazione *** e ½
FabioFeli
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camillalavazza
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venerdì 4 gennaio 2019
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musica e vita
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È la donna della mia vita” ripete più volte il musicista Wiktor nel corso del film. Ma di questa donna, Zula, interpretata dalla magnetica Joanna Kulig, che attrae qualsiasi sguardo, sia che il regista la collochi al centro sia che la spinga ai bordi dell’inquadratura, sappiamo fin dall’inizio – e lo sa anche Wiktor - che ha subito un danno. Ce lo fa sapere lei stessa con una battuta folgorante nella prima parte del film, tra un vocalizzo e l’altro, e ce lo dimostra durante lo scorrere della storia, in cui i personaggi si amano e si perdono, si ritrovano, anche dopo lunghi intervalli di separazione, trasformati dalle diverse esperienze eppure intimamente identici, si fanno del male come se ferirsi e lasciarsi fosse solo un’altra dimostrazione d’amore (“L’ho fatto per te” dice, ad un certo punto lei, quando lui le domanda perché si sia sposata con altro).
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È la donna della mia vita” ripete più volte il musicista Wiktor nel corso del film. Ma di questa donna, Zula, interpretata dalla magnetica Joanna Kulig, che attrae qualsiasi sguardo, sia che il regista la collochi al centro sia che la spinga ai bordi dell’inquadratura, sappiamo fin dall’inizio – e lo sa anche Wiktor - che ha subito un danno. Ce lo fa sapere lei stessa con una battuta folgorante nella prima parte del film, tra un vocalizzo e l’altro, e ce lo dimostra durante lo scorrere della storia, in cui i personaggi si amano e si perdono, si ritrovano, anche dopo lunghi intervalli di separazione, trasformati dalle diverse esperienze eppure intimamente identici, si fanno del male come se ferirsi e lasciarsi fosse solo un’altra dimostrazione d’amore (“L’ho fatto per te” dice, ad un certo punto lei, quando lui le domanda perché si sia sposata con altro).
Davanti, dietro, tutto intorno c’è la musica, che li accompagna adattandosi alla loro evoluzione, dalle iniziali registrazioni etnomusicologiche con cui si apre il film (ed è chiaro quanto sarà in errore chi accuserà Wiktor di non amare la Polonia) agli inni in onore di Stalin a cui il musicista si piega, stravolgendo il suo repertorio, pur di rimanere accanto a quella donna di cui si è innamorato a prima vista, alla musica jazz con cui si mantiene a Parigi, dove sarà invece lei ad accettare di snaturare la canzone che narra del loro destino.
Musica sempre giustificata e posizionata al punto giusto, capace anche di tacere per lasciare spazio al fruscio delle chiome degli alberi, in grado come non mai di riflettere il non detto dei personaggi che paiono sempre trascinati via dalle circostanze, contro la loro volontà, quando in verità sono le loro scelte che li portano continuamente a separarsi e ritrovarsi.
Le altre persone che li circondano sono sfumate, in alcuni casi solo citate e nemmeno mostrate, niente altro che ostacoli o strumenti nel vortice del loro amore che li pone al centro dell’universo e del tempo.
Paweł Pawlikowski filma la sua protagonista con sguardo ammaliato dalla sua bellezza e dalla sua bravura, fa onore ad una creatura viva, forte ed insicura al tempo stesso, indipendente e fragile, spiazzante ed irresistibile; riesce perfino a farne intuire la presenza dal solo sguardo di lui che ci fissa, facendoci presentire la sua figura riflessa in uno specchio, quasi invisibile in una folla festante.
Una figura femminile che pare guidare l’intera vicenda (una femme fatale viene definita ad un certo punto, ma con ironia) una ragazza dalla spontaneità seducente che tuttavia ha bisogno dell’aiuto dell’alcool per lasciarsi andare.
L’ambientazione negli anni della “Guerra fredda”, girata in un sofisticato bianco e nero e con un formato quadrato che non permette allo sguardo di distrarsi, sembra quasi suggerire che questi amori complessi non possano trovare spazio nella contemporaneità, ma basta lo sguardo di lei (e qui l’interpretazione della Kulig si fa struggente) che mentre si esibisce sul palco all’improvviso nota lui, inaspettato tra il pubblico, per farci immedesimare in un sentimento sempre attuale ed autentico.
È troppo semplicistico tracciare un parallelismo tra la Guerra Fredda che fa da cornice alla vicenda e la lotta di volontà che si consuma tra i protagonisti, tra la necessità di stare insieme ed il timore di non essere all’altezza l’uno dell’altra (ben diverso da un indefinito bisogno di “libertà”). Pawlikowski in soli 85 minuti ci racconta due intere esistenze ed una storia d’amore che non ha bisogno di aggettivi.
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writer58
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giovedì 3 gennaio 2019
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paris, poland...
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Ho mandato una recensione su “Cold War” poco prima della mezzanotte del 31, ma deve essere stata inghiottita nel buco nero del Capodanno. Poco male, posso scriverne un'altra dopo aver lasciato sedimentare le mie impressioni per qualche giorno in più, anche se il film sembra opporre resistenza a una disamina “fredda” lasciandomi quelle sensazioni proprie di una grande opera, una miscela di emozioni, condivisione, ammirazione e speranza.
L'ultimo lavoro di Pawlikowski è essenzialmente un trattato sulla potenza e l'impossibilità dell'amore, inteso come comunione spirituale e fusione passionale, un'autentica “guerra fredda” tra ragione e pulsioni, tra individualità e desiderio di perdersi, tra fuga e bisogno di unire, di annullare le differenze, di con/fondersi.
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Ho mandato una recensione su “Cold War” poco prima della mezzanotte del 31, ma deve essere stata inghiottita nel buco nero del Capodanno. Poco male, posso scriverne un'altra dopo aver lasciato sedimentare le mie impressioni per qualche giorno in più, anche se il film sembra opporre resistenza a una disamina “fredda” lasciandomi quelle sensazioni proprie di una grande opera, una miscela di emozioni, condivisione, ammirazione e speranza.
L'ultimo lavoro di Pawlikowski è essenzialmente un trattato sulla potenza e l'impossibilità dell'amore, inteso come comunione spirituale e fusione passionale, un'autentica “guerra fredda” tra ragione e pulsioni, tra individualità e desiderio di perdersi, tra fuga e bisogno di unire, di annullare le differenze, di con/fondersi.
Girato in un meraviglioso bianco e nero, più luminoso e profondo del colore, “Cold war” ci porta nella Polonia comunista del 1949. Wiktor dirige la Scuola di Musica di canto popolare, seleziona ballerini e voci del coro che interpreteranno i ritmi folclorici della tradizione. Zula è una giovane donna, dalla forte personalità, in libertà vigilata per l'omicidio del padre che voleva abusare di lei, cantante di talento. Il loro amore è impetuoso, ha la stessa forza di un magnete che attrae a sé gli oggetti nel proprio campo. Ma, allo stesso tempo, è sottoposto a sollecitazioni che rischiano di dissolverlo.
Lo stalinismo pervade l'Est Europeo e arriva a invadere la stessa scuola di musica, che dovrebbe trasformarsi in un'agenzia di propaganda. Wiktor non vuole assecondare l'involuzione, progetta di superare la cortina di ferro e rifugiarsi a Parigi, Zula esita, teme la portata del cambiamento, lascia che Wiktor parta da solo. Quando, anni dopo, si ritrovano a Parigi, la loro passione è ancora intatta, così come le ragioni che li hanno spinti a separarsi. Anche quando lei può risiedere legalmente nella capitale francese, grazie a un matrimonio di facciata, la loro relazione appare contrastata, fragile, alterna momenti appassionati, con litigi, tradimenti, bicchieri di troppo, difficoltà di adattamento, rifiuto di un contesto culturale differente. Zula si concede e si nega, come se la sua passione potesse essere alimentata solo da situazioni estreme: soggiacere al desiderio con tutto il suo essere e subito dopo allontanarsi per cancellare, per ripristinare il “momento zero” dell'amore.
Gli amanti in questo gioco ardono come falene troppo vicine al fuoco, finché Zula decide di rientrare in Polonia, senza lasciare alcuna comunicazione. Wiktor prova a rintracciarla telefonicamente, poi, come lo spettatore ha già intuito, varca clandestinamente la frontiera e torna nel suo paese dopo 10 anni di assenza. In Polonia viene torturato e condannato a 15 anni di carcere, ridotti a un terzo grazie all'intercessione di Zula. Gli amanti sono di nuovo insieme a fissare la campagna polacca, forse contenti per essere sopravvissuti alla follia della cortina di ferro, forse maledicendo in cuor loro il momento in cui si sono conosciuti e la rovina che sono riusciti ad attirare su di loro.
“Cold war” è un film girato in modo magnifico, con scene che rimangono incise nell'immaginario dello spettatore, come quella della sala colma di persone viste attraverso lo specchio, con i protagonisti in primo piano e gli altri progressivamente sfocati oppure gli andirivieni di Wiktor e Zula per le strade di Parigi, inquadrature così nitide che sembrano girate mediante una macchina del tempo. Una storia narrata in modo magistrale, senza tempi morti, con una scansione temporale rapida che compendia 15 anni in un'ora e mezza di filmato.
Un magnifico film, a mio giudizio il migliore dell'anno che si è appena concluso.
W.
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camillalavazza
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giovedì 3 gennaio 2019
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musica e vita
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È la donna della mia vita” ripete più volte il musicista Wiktor nel corso del film. Ma di questa donna, Zula, interpretata dalla magnetica Joanna Kulig, che attrae qualsiasi sguardo, sia che il regista la collochi al centro sia che la spinga ai bordi dell’inquadratura, sappiamo fin dall’inizio – e lo sa anche Wiktor - che ha subito un danno. Ce lo fa sapere lei stessa con una battuta folgorante nella prima parte del film, tra un vocalizzo e l’altro, e ce lo dimostra durante lo scorrere della storia, in cui i personaggi si amano e si perdono, si ritrovano, anche dopo lunghi intervalli di separazione, trasformati dalle diverse esperienze eppure intimamente identici, si fanno del male come se ferirsi e lasciarsi fosse solo un’altra dimostrazione d’amore (“L’ho fatto per te” dice, ad un certo punto lei, quando lui le domanda perché si sia sposata con altro).
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È la donna della mia vita” ripete più volte il musicista Wiktor nel corso del film. Ma di questa donna, Zula, interpretata dalla magnetica Joanna Kulig, che attrae qualsiasi sguardo, sia che il regista la collochi al centro sia che la spinga ai bordi dell’inquadratura, sappiamo fin dall’inizio – e lo sa anche Wiktor - che ha subito un danno. Ce lo fa sapere lei stessa con una battuta folgorante nella prima parte del film, tra un vocalizzo e l’altro, e ce lo dimostra durante lo scorrere della storia, in cui i personaggi si amano e si perdono, si ritrovano, anche dopo lunghi intervalli di separazione, trasformati dalle diverse esperienze eppure intimamente identici, si fanno del male come se ferirsi e lasciarsi fosse solo un’altra dimostrazione d’amore (“L’ho fatto per te” dice, ad un certo punto lei, quando lui le domanda perché si sia sposata con altro).
Davanti, dietro, tutto intorno c’è la musica, che li accompagna adattandosi alla loro evoluzione, dalle iniziali registrazioni etnomusicologiche con cui si apre il film (ed è chiaro quanto sarà in errore chi accuserà Wiktor di non amare la Polonia) agli inni in onore di Stalin a cui il musicista si piega, stravolgendo il suo repertorio, pur di rimanere accanto a quella donna di cui si è innamorato a prima vista, alla musica jazz con cui si mantiene a Parigi, dove sarà invece lei ad accettare di snaturare la canzone che narra del loro destino.
Musica sempre giustificata e posizionata al punto giusto, capace anche di tacere per lasciare spazio al fruscio delle chiome degli alberi, in grado come non mai di riflettere il non detto dei personaggi che paiono sempre trascinati via dalle circostanze, contro la loro volontà, quando in verità sono le loro scelte che li portano continuamente a separarsi e ritrovarsi.
Le altre persone che li circondano sono sfumate, in alcuni casi solo citate e nemmeno mostrate, niente altro che ostacoli o strumenti nel vortice del loro amore che li pone al centro dell’universo e del tempo.
Paweł Pawlikowski filma la sua protagonista con sguardo ammaliato dalla sua bellezza e dalla sua bravura, fa onore ad una creatura viva, forte ed insicura allo tempo stesso, indipendente e fragile, spiazzante ed irresistibile; riesce perfino a farne intuire la presenza dal solo sguardo di lui che ci fissa, facendoci presentire la sua figura riflessa in uno specchio, quasi invisibile in una folla festante.
Una figura femminile che pare guidare l’intera vicenda (una femme fatale viene definita ad un certo punto, ma con ironia) una ragazza dalla spontaneità seducente che tuttavia ha bisogno dell’aiuto dell’alcool per lasciarsi andare.
L’ambientazione negli anni della “Guerra fredda”, girata in un sofisticato bianco e nero e con un formato quadrato che non permette allo sguardo di distrarsi, sembra quasi suggerire che questi amori complessi non possano trovare spazio nella contemporaneità, ma basta lo sguardo di lei (e qui l’interpretazione della Kulig si fa struggente) che mentre si esibisce sul palco all’improvviso nota lui, inaspettato tra il pubblico, per farci immedesimare in un sentimento sempre attuale ed autentico.
È troppo semplicistico tracciare un parallelismo tra la Guerra Fredda che fa da cornice alla vicenda e la lotta di volontà che si consuma tra i protagonisti, tra la necessità di stare insieme ed il timore di non essere all’altezza l’uno dell’altra (ben diverso da un indefinito bisogno di “libertà”). Pawlikowski in soli 85 minuti ci racconta due intere esistenze ed una storia d’amore che non ha bisogno di aggettivi.
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jackbeauregard
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giovedì 3 gennaio 2019
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esteticamente molto bello
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Cold War è un film esteticamente molto bello. Bianco e nero contrastato, grande cura delle inquadrature, dei veri e propri quadri d'autore. Il formato è sempre un 4:3 come in Ida, ma in Cold War ci sono molto più movimenti di macchina, mentre Ida era costruito quasi interamente da inquadrature fisse con i personaggi che si muovevano all'interno di ogni quadro. Grande regia e fotografia.
Detto questo, devo ammettere che sono rimasto un po' deluso, come solitamente capita quando si hanno aspettative troppo alte.
C'è un certo squilibrio tra la prima parte, in Polonia, molto curata, ma forse eccessivamente lunga e la seconda, principalmente ambientata a Parigi.
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Cold War è un film esteticamente molto bello. Bianco e nero contrastato, grande cura delle inquadrature, dei veri e propri quadri d'autore. Il formato è sempre un 4:3 come in Ida, ma in Cold War ci sono molto più movimenti di macchina, mentre Ida era costruito quasi interamente da inquadrature fisse con i personaggi che si muovevano all'interno di ogni quadro. Grande regia e fotografia.
Detto questo, devo ammettere che sono rimasto un po' deluso, come solitamente capita quando si hanno aspettative troppo alte.
C'è un certo squilibrio tra la prima parte, in Polonia, molto curata, ma forse eccessivamente lunga e la seconda, principalmente ambientata a Parigi. Il finale poi è un po' troppo sbrigativo. Le ellissi temporali coprono periodi piuttosto lunghi e danno forse troppe cose per scontate. Ci sarebbe stata la necessità di tempi un po' più dilatati, a mio avviso.
Gli interpreti sono tutti bravi con un rilievo maggiore per la protagonista, sempre molto intensa, specialmente nelle scene canore e in quelle sentimentali. Bellissima nei tanti primi piani.
È un film che vale, ma per quanto mi riguarda, non raggiunge la vetta di indagine introspettiva di Ida. Anche qui l'attenzione è rivolta principalmente al personaggio femminile, ma il risultato è meno riuscito. Ne esce una figura di donna non completamente definita, dai sentimenti e comportamenti spesso ondivaghi che non trovano sempre una convincente giustificazione nel proseguo della storia. Forse si dovevano limitare o evitare alcuni elementi narrativi poco sviluppati, specialmente nella parte francese, la più sfilacciata.
Raccontare in soli 85 minuti, ben 15 anni di vicissitudini, dal 49 al 64, nonostante il ricorso ad ampi salti temporali, rischia di diventare un'impresa eccessiva.
Resta comunque un film da vedere, se non altro per questo grande gusto cinematografico, così classico, mostrato da Palinowski.
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[+] d'accordo
(di giuliana)
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shota
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mercoledì 2 gennaio 2019
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perfetto nel suo genere
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Il titolo del fim è alquanto fuorviante, nel senso che l'ambientazione della guerra fredda è del tutto inessenziale. E' un film d'amore, e potrebbe essere ambientato in un qualunque periodo storico (a patto che questo periodo storico provochi ogni sorta di difficoltà all'amore dei due, come d'altra parte ben sapeva un certo Alessandro Manzoni). Il riferimeno a Manzoni è da intendersi comunque in modo molto restrittivo: 'Cold War' a differenza dei 'Promessi Sposi' non utilizza affatto una storia d'amore per parlare d'altro, il film parla in effetti SOLO di questa storia d'amore. Forse, quello che ha in comune veramente coi Promessi Sposi è che anche questo film (almeno potenzialmente) è un vero classico, seppur solo nel suo genere.
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Il titolo del fim è alquanto fuorviante, nel senso che l'ambientazione della guerra fredda è del tutto inessenziale. E' un film d'amore, e potrebbe essere ambientato in un qualunque periodo storico (a patto che questo periodo storico provochi ogni sorta di difficoltà all'amore dei due, come d'altra parte ben sapeva un certo Alessandro Manzoni). Il riferimeno a Manzoni è da intendersi comunque in modo molto restrittivo: 'Cold War' a differenza dei 'Promessi Sposi' non utilizza affatto una storia d'amore per parlare d'altro, il film parla in effetti SOLO di questa storia d'amore. Forse, quello che ha in comune veramente coi Promessi Sposi è che anche questo film (almeno potenzialmente) è un vero classico, seppur solo nel suo genere. E' un film d'amore, ma posso dire in tutta sincerità che è il più bel film d'amore che io abbia mai visto. Il fatto che sia una storia vera facilita il compito, come sempre, ma non c'è nessun rilievo da aggiungere: il film è praticamente perfetto.
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