
Dentro al fantasy sempre più spaziale della Marvel si agita una macchina industriale capace di misurare col cronometro la presenza di ogni supereroe sullo schermo. Al cinema.
di Roy Menarini
A Hollywood circola da anni una storiella, raccontata dai registi più indipendenti, che di volta in volta ha come protagonista Steven Spielberg o James Cameron o qualche produttore della Disney. L'aneddoto narra di una riunione tra potenti realizzatori di blockbuster, dove uno chiede: "A che pubblico ci rivolgiamo?", un altro risponde: "A un pubblico ampio", un altro ancora: "Possibilmente amplissimo" e l'ultimo spiega: "Immaginatevi un ragazzino povero, di una famiglia disgregata, che vive nella periferia polacca o in qualche area dimenticata dell'India, che ha solo poche monete in tasca: ecco, fate in modo che persino quelle monete entrino nelle nostre tasche". Sinceramente, vedendo Avengers: Infinity War e il pubblico trasversale in fila per entrare, sembra che questo raccontino si attagli perfettamente alla Marvel/Disney.
Niente di nuovo sotto il sole, sia chiaro: il blockbuster come invenzione dell'industria hollywoodiana è un concetto che di per sé pretende un pubblico globalizzato e larghissimo, dove le differenze culturali trovino una fusione popolare e non ostativa. Ma il punto di accumulo cui giunge questo primo episodio del doppio film destinato a cambiare il Marvel Universe è chiaramente di non ritorno.
Dentro al fantasy sempre più spaziale della Marvel (la fuga dall'immaginario urbano annusa l'aria che tira oggi: più fantascienza possibile, meglio è) si agita una macchina industriale capace di misurare col cronometro la presenza di ogni supereroe sullo schermo, e una lucidità strategica così ampia da scegliere effetti speciali più conservativi e dark di quelli che avrebbe potuto escogitare qualche creatore più interessato all'estremismo tecnologico, come Michael Bay.
Per tenere insieme tanti differenti supereroi, e tante diverse realtà narrative, è necessario un ingrediente unitario, che nel primo The Avengers era stato brillantemente intuito da Joss Whedon nelle forme della commedia di caratteri, quasi una screwball comedy tra personaggi alienati e bizzosi. Poi le leggi del blockbuster hanno richiesto altro, e quindi la parte ironica è stata via via affidata a battute di dialogo dal puro scopo di alleggerimento, mentre l'epica avrebbe dovuto prendere il sopravvento. Avrebbe, diciamo, perché è proprio in questa dimensione che spesso le cose non funzionano.
In effetti, mentre la Marvel sembra sempre curiosa e innovativa quando realizza i film di singoli supereroi, sembra molto meno audace quando gioca con la pluralità.
Ovviamente la nostra è un'analisi di critica dei contenuti, perché appare evidente che la Marvel - intesa come industria creativa - invece non sbaglia affatto a fare le scelte che fa. Ma se le fa è anche perché deve tenere conto di una audience sparsa (e non per modo di dire) nei cinque angoli del Pianeta e dunque parlare a tutti cercando la massima neutralità politica possibile. L'epica, infatti, non proviene da scontri tecnicamente più o meno riusciti ma dalla forza evocativa degli antagonisti e dalla potenza mitica della storia. E se gli Avengers - comprensivi dei Guardiani della Galassia - sono ormai noti, anche nelle loro fragilità, Thanos sembra più il frullato dei cattivi precedenti (tallone d'Achille della Marvel: il carisma del villain) che non una entità davvero trascendente.
Non sarà facile dunque conciliare il parere di chi trova in Avengers: Infinity War il non plus ultra delle potenzialità della Marvel/Disney e la freddezza di chi al contrario sperava in qualcosa di più sorprendente o almeno di trovare quella sfida avanguardista nascosta che i grandi blockbuster hollywoodiani (quelli destinati a rimanere) hanno sempre posseduto. Ma, appunto, sarà la voce del pubblico a contare, oltre a quella del fandom. Come giusto che sia.