writer58
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sabato 13 febbraio 2016
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una stagione all'inferno
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Un volto in primo piano, tutto il resto è sfocato, non si intuisce quasi nulla. La messa a fuoco rivela un paesaggio di campagna, un complesso di edifici tetri sormontati dalla scritta "Arbeit macht frei". Reclusi con un segno rosso sulla schiena, una grande X, inquadrati da dietro mentre si recano al lavoro. La cinepresa che accompagna i movimenti disordinati di una folla di persone nude che si riversano verso una doccia di Zyklon B, mentre una voce li esorta a sbrigarsi "per non fare raffreddare la zuppa". La fatica brutale dei sonderkommando che devono trascinare decine e decine di corpi, i "pezzi", fuori dalle camere a gas, recuperare vestiti, valigie e oggetti di valore, introdurre i cadaveri nei crematori, raccogliere le ceneri, disperderle.
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Un volto in primo piano, tutto il resto è sfocato, non si intuisce quasi nulla. La messa a fuoco rivela un paesaggio di campagna, un complesso di edifici tetri sormontati dalla scritta "Arbeit macht frei". Reclusi con un segno rosso sulla schiena, una grande X, inquadrati da dietro mentre si recano al lavoro. La cinepresa che accompagna i movimenti disordinati di una folla di persone nude che si riversano verso una doccia di Zyklon B, mentre una voce li esorta a sbrigarsi "per non fare raffreddare la zuppa". La fatica brutale dei sonderkommando che devono trascinare decine e decine di corpi, i "pezzi", fuori dalle camere a gas, recuperare vestiti, valigie e oggetti di valore, introdurre i cadaveri nei crematori, raccogliere le ceneri, disperderle. E bisogna fare in fretta, nuovi deportati attendono di entrare nelle "docce", occorre fare più turni, ottimizzare la forza lavoro, rendere più efficiente la macchina del genocidio.
Movimenti caotici di persone che escono da spazi chiusi per entrare in altri ambienti identici, con gli occhi puntati sulla schiena di chi gli sta davanti, che si assembrano, parlano a voce bassissima o che sono troppo attoniti per parlare e guardano fisso davanti a sè ed è tutto privo di contorni, vedi solo chi ti sta vicino, in testa risuonano gli ordini delle SS che ti urlano di fare in fretta, che organizzano la logistica dello sterminio.
Si va avanti come automi, mentre ondate di deportati vengono spinte lungo il percorso abituale, il gioco dell'oca della morte o, quando le camere a gas sono piene, ammazzati con una sventagliata di fucile o un getto di lanciafiamme.
Un giorno ti sembra di vedere tra i corpi esanimi un volto conosciuto. E' tuo figlio, magari non è il tuo vero figlio, ma in quel momento è come se lo fosse. Un adolescente di forse 14 anni e lo vuoi strappare al circuito abituale, vuoi dargli una degna sepoltura. Vai alla ricerca di un rabbino, supplichi il medico di mettere da parte il corpo, chiedi ai compagni che non capiscono di indicarti una persona che possa recitare il kaddish e celebrare il funerale.
Corri rischi tremendi per seppellire il ragazzo, puoi venir ucciso in ogni istante. Ma tanto, la tua fine è già segnata, la X sulla schiena è simile a un conteggio alla rovescia prossimo allo zero, tra due giorni tutta la squadra dei sonderkommando verrà sterminata. Se la vita è stata ridotta a un cumulo di orrori, tanto vale santificare la morte, dare dignità all’estremo congedo.
“Il figlio di Saul”, opera prima di Nemes, regista ungherese, è terrorizzante, caotico, sconvolgente, lascia nello spettatore un senso di sgomento di fronte alla “fabbrica della morte”. L’abominio dell’Olocausto è mostrato attraverso immagini parziali, confuse, convulse, come se la cinepresa fose affetta da miopia e riuscisse a inquadrare solo i dettagli vicini.
Un grande film.
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[+] bravo!
(di vanessa zarastro)
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nadiamaria
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mercoledě 17 giugno 2015
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umanitŕ
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Film da non perdere! Geniale l'idea dello sguardo all'orrore, dentro l'orrore stesso. Con la rappresentazione di una parte incredibilmente piccola e sfuocata del dramma, lo spettatore č immerso in un tutto angosciante. La metaforica ricerca di dare sepoltura al figlio proprio o al figlio di un altro, quindi di adempiere un rituale religioso, diventa un bisogno disperato, primario, scopo del vivere e del non vivere. La ricerca della sepoltura č il velo, č la metafora dell'umanitŕ, della dignitŕ umana che viene preservata, ossessivamente mantenuta fino alla fine. All'uomo potete togliere tutto, anche la vita, ma non l'essenza.
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fabiofeli
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lunedě 25 gennaio 2016
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Łsiamo giŕ morti"
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E’ attonito, stolido, apparentemente indifferente il volto di Saul (Geza Rohrig) che riempie lo schermo per metà film. Saul è un ebreo del Sonderkommando di Auschwitz: deve convincere le vittime a spogliarsi per una doccia e una zuppa calda e spingerle nelle camere a gas. Poi deve ripulire gli spogliatoi, vuotare le tasche dei deportati in cerca di denaro e gioielli, caricare gli “Stűcke”, i “pezzi”, vale a dire i cadaveri ridotti a oggetti per portarli alla cremazione. Se questo è un uomo, scrive Primo Levi. Quello che si svolge attorno a lui si intravede, si intuisce: si sentono gli ordini secchi delle guardie, gli spari delle esecuzioni sommarie e le mani frenetiche delle vittime che battono contro le porte di ferro delle camere a gas.
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E’ attonito, stolido, apparentemente indifferente il volto di Saul (Geza Rohrig) che riempie lo schermo per metà film. Saul è un ebreo del Sonderkommando di Auschwitz: deve convincere le vittime a spogliarsi per una doccia e una zuppa calda e spingerle nelle camere a gas. Poi deve ripulire gli spogliatoi, vuotare le tasche dei deportati in cerca di denaro e gioielli, caricare gli “Stűcke”, i “pezzi”, vale a dire i cadaveri ridotti a oggetti per portarli alla cremazione. Se questo è un uomo, scrive Primo Levi. Quello che si svolge attorno a lui si intravede, si intuisce: si sentono gli ordini secchi delle guardie, gli spari delle esecuzioni sommarie e le mani frenetiche delle vittime che battono contro le porte di ferro delle camere a gas. Saul non collabora con gli altri malcapitati del Sonderkommando; è al termine dei quattro mesi e conosce la sua sorte ormai vicina. Dice: “Siamo già morti”. Si scuote solo al vedere un ragazzo, nel quale crede di ravvisare suo figlio, che respira ancora all’uscita della camera a gas; un medico, però, soffoca il fanciullo e Saul si prefigge solo uno scopo: trovare un rabbino per l’orazione funebre, che lo aiuti nella sepoltura. E’ il solo modo di ribellarsi che gli sembra possibile …
L’orrore del lager viene mostrato quasi fuori campo: una catena di montaggio della fabbrica industriale della morte, organizzata a perfezione, con lo smaltimento dei “pezzi” e il recupero degli oggetti utili come sottoprodotti. Il regista Laszlo Nemes sembra voler dire che l’orrore è irrappresentabile. Si tratta solo di una fabbrica insensata, quasi come a volte si rivela quella dell’industria capitalistica, perché la morte non finisce mai e allo stesso modo la produzione industriale si inceppa con la saturazione del mercato. La tecnica di ripresa in close-up sul viso, sulla fronte, sulla nuca di Saul ricorda lo stile dei Dardenne. Un solo sorriso illumina il volto di Saul, quando vede un altro ragazzo del quale potrebbe essere padre. C’è ancora una scintilla di sentimento umano in lui e smorza in parte, solo in parte, l’amarezza della vicenda.
Un’opera prima: un grandissimo film. Da non mancare.
Valutazione ****
FabioFeli
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riccardo tavani
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venerdě 25 novembre 2016
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l'iquadratura incollata sul volto sepolto di saul
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C’è stata sempre una questione cruciale nelle discussioni sulla Shoah. È la questione della rappresentazione dello sterminio e dei modi di sterminio attuato dai nazisti contro ebrei, zingari, omosessuali, dissidenti, credenti in altre religioni. Com’è possibile trovare una forma di espressione in immagini, parole, musica o altro a un orrore tale da superare ogni umana possibilità di rappresentazione?
Si può essere testimoni – si domanda Primo Levi –, ossia si può dare legittimamente la propria parola, logos, forma di ragionamento umana a chi era stato ridotto a una soglia di esistenza che sprofondava sotto quella dell’umano? Solo quel non-essere più umano potrebbe essere testimone diretto della propria condizione: ma come può farlo se non è più uomo, ossia non ha più parola? Se non ci si è trovati direttamente, come si può dire, testimoniare per chi si è invece trovato denudato dei propri abiti e della propria umanità corporea-spirituale e spinto, ammassato dentro le camere a gas, asfissiato dal micidiale gas Ziklon B?
Proprio su questo puntarono i nazisti: talmente mostruoso era quello che facevano che nessun eventuale sopravvissuto – affermavano spavaldamente – sarebbe stato creduto nel raccontarlo al mondo.
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C’è stata sempre una questione cruciale nelle discussioni sulla Shoah. È la questione della rappresentazione dello sterminio e dei modi di sterminio attuato dai nazisti contro ebrei, zingari, omosessuali, dissidenti, credenti in altre religioni. Com’è possibile trovare una forma di espressione in immagini, parole, musica o altro a un orrore tale da superare ogni umana possibilità di rappresentazione?
Si può essere testimoni – si domanda Primo Levi –, ossia si può dare legittimamente la propria parola, logos, forma di ragionamento umana a chi era stato ridotto a una soglia di esistenza che sprofondava sotto quella dell’umano? Solo quel non-essere più umano potrebbe essere testimone diretto della propria condizione: ma come può farlo se non è più uomo, ossia non ha più parola? Se non ci si è trovati direttamente, come si può dire, testimoniare per chi si è invece trovato denudato dei propri abiti e della propria umanità corporea-spirituale e spinto, ammassato dentro le camere a gas, asfissiato dal micidiale gas Ziklon B?
Proprio su questo puntarono i nazisti: talmente mostruoso era quello che facevano che nessun eventuale sopravvissuto – affermavano spavaldamente – sarebbe stato creduto nel raccontarlo al mondo. E sono andati molto vicini a che ciò si avverasse.
Di tale questione ha eminentemente tenuto conto László Nemes, il regista esordiente di questo film. Chi denudava e spingeva la massa dei corpi dentro le camere a gas e poi li ritirava fuori per trascinarli nei forni crematori, dove erano bruciati? Chi portava fuori le montagne di cenere della combustione e la spargeva tra le acque di un lago o di un fiume? Erano uomini di un reparto speciale, chiamato Sonderkommando. Chi erano questi uomini? Erano altri ebrei, costretti dai nazisti a rendere efficiente e spedita la loro catena di montaggio industriale della morte. Dopo un mese o poco più anche questi ebrei erano eliminati e sostituiti da nuovi deportati, appena arrivati ed eletti a becchini.
Ecco il testimone del film. Un addetto al Sonderkommando del campo di Auschwitz-Birkenau: l’ungherese Saul Ausländer.
I corpi dei detenuti gasati sono chiamati pezzi dalle guardie naziste: “Portate via i pezzi, bruciate i pezzi!”, urlano ai Sonderkommando. Neanche la morte – scrive Primo Levi – si può chiamare più morte nei campi. Anche la morte è stata tecnicamente ridotta al sub umano. Questo l’esperimento che va oltre ogni orrore attuato dai nazisti. Misurare la soglia sotto cui si può schiacciare l’umano anche nella morte.
Il tentativo di Saul di assolvere all’imperativo di restituire un figlio alla sepoltura, si fa nel film fenomenale espediente narrativo per farci percepire tutto lo spietato assemblaggio tecnico della produzione e combustione di pezzi cadaverici, pupazzi di mera, consunta stoffa epidermica e ossea. Pure lo stile della ripresa e della resa cinematografica è continuamente ricondotto all’inquadratura stretta, incollata sul volto di Saul. Sul volto, cioè, del testimone, come una soggettiva del suo sguardo e della sua coscienza. Inquadratura che non rappresenta l’irrappresentabile, ma lo fa intravedere, udire, percepire acutamente più alla sensibilità sepolta nel nostro sottosuolo, allo sguardo interiore che alla vista esteriore.
La X a vernice rossa dietro la giacca di Saul, più che un segno di infamia impresso dalle guardie naziste a un pezzo, a un pupazzo del Sonderkommando, si fa segno del sacro, del divino che è già nella terra infinita da cui veniamo e che abitiamo.
Oscar Miglior Film Straniero 2016.
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vanessa zarastro
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venerdě 22 gennaio 2016
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il ritorno del cinema ungherese
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Il figlio di Saul è un film molto duro dove la violenza è palese ma non è manifestata con l’immagine, non c’è descrizione o spettacolarizzazione delle camere a gas. Siamo ad Auschwitz nel 1944: ci sono i suoni, i rumori, le urla.
I corpi si possono intravedere in un voluto "fuori fuoco". Tutto è claustrofobico e visto ad altezza d’uomo. Solo un paio di scene dove si vede la natura incontaminata che contrasta con la perfida organizzazione scientifica dello sterminio. Il film parla anche dell'importanza ruolo della memoria e della testimonianza. Da un lato, il tentativo dei ribelli di rimediare una macchina fotografica per rappresentare la tragedia d’immani proporzioni del campo di sterminio, dall’altro, lo sguardo del bambino che, nel finale, vede i fuggiaschi e poi sente gli spari sarà proprio il ricordo del sopravvissuto.
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Il figlio di Saul è un film molto duro dove la violenza è palese ma non è manifestata con l’immagine, non c’è descrizione o spettacolarizzazione delle camere a gas. Siamo ad Auschwitz nel 1944: ci sono i suoni, i rumori, le urla.
I corpi si possono intravedere in un voluto "fuori fuoco". Tutto è claustrofobico e visto ad altezza d’uomo. Solo un paio di scene dove si vede la natura incontaminata che contrasta con la perfida organizzazione scientifica dello sterminio. Il film parla anche dell'importanza ruolo della memoria e della testimonianza. Da un lato, il tentativo dei ribelli di rimediare una macchina fotografica per rappresentare la tragedia d’immani proporzioni del campo di sterminio, dall’altro, lo sguardo del bambino che, nel finale, vede i fuggiaschi e poi sente gli spari sarà proprio il ricordo del sopravvissuto.
Lunghi piani sequenza con la macchina da presa (in pellicola formato 4:3) ad altezza spalla che, quando non inquadra nei primi piani il protagonista eternamente in scena, lo segue ovunque: una “maschera di ferro” in cui il terrore e l’alienazione hanno tolto qualsiasi emozione. Non ci sono i buoni e non c’è pietas c’è solo la spersonalizzazione e un innato senso di sopravvivenza che è la molla dei movimenti e fa sì che non si fa più caso a nulla…a meno che non sia l’immagine di un bambino ucciso soffocato dopo essere incredibilmente sopravvissuto alla camera a gas. Così l’ebreo ungherese Saul Ausländer (un fantastico Géza Röhring, scrittore e poeta) cerca di esorcizzare la sua colpa di collaborazionismo – era reclutato a lavorare nel sonderkommando per rimuovere i cadaveri dalle camere a gas e poi bruciarli - nel tentare di dare una dignità alla morte poiché nella vita non esiste più. Così il film tratta della sua ossessione nel cercare un rabbino che reciti il kaddish e che lo aiuti a dare una sepoltura a suo figlio (ma sarà veramente suo figlio o è solo simbolico?) per cui rischia più volte la morte pur di sottrarre il cadavere, tra le migliaia di corpi, dai forni crematori e nella ricerca di un rabbino disponibile. Gli unici momenti di tenerezza sono nello sguardo del padre, quando distende il corpo del figlio nel suo letto e quando inizia a lavarlo con amore e delicatezza (rechitzah). L’ossessione di Saul lo distoglie anche dall’impegno politico e sociale che infervora i suoi compagni ribelli: in lui c’è solo assuefazione e l’unico suo desiderio è di dignità nella morte. Infatti, nella cultura ebraica la morte ha una notevole importanza e sette sono i giorni di lutto stretto.
László Nemes è un giovane regista ungherese neanche quarantenne figlio d’arte – anche suo padre è regista – che ha studiato cinema sia a Parigi sia a New York ed è al suo primo lungometraggio. Con lui sembra di ritornare agli anni d’oro dei registi ungheresi del “Nuovo cinema ungherese” come ad esempio Miklós Jancsó negli anni Sessanta. Già premiato a Cannes e vinto il Golden Globe, il film è candidato meritatamente all’Oscar 2016 come migliore film straniero.
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[+] un innato senso di sopravvivenza...
(di angelo umana)
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catcarlo
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giovedě 4 febbraio 2016
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il figlio di saul
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L’Olocausto è materia vasta, ma già ampiamente sfruttata e la ricerca di una nuova via per raccontarlo diventa quasi obbligata per evitare i rischi della banalizzazione più o meno lacrimevole: affrontare l’argomento utilizzando gli stilemi del film da festival è aggiungere sfida alla sfida con una certa dose di sorvegliata incoscienza. Partendo da simili, impegnativi premesse, l’esordiente ungherese Nemes realizza un’opera dalla controllatissima struttura formale attraverso la quale ricostruisce l’orrore dei campi di concentramento e, soprattutto, il livello zero di umanità in essi raggiunto: ne scaturisce un lavoro che, unendo mirabilmente estetica ed etica, colpisce con vigoroso impatto traendo forza dalla messa al bando di qualsiasi patetismo.
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L’Olocausto è materia vasta, ma già ampiamente sfruttata e la ricerca di una nuova via per raccontarlo diventa quasi obbligata per evitare i rischi della banalizzazione più o meno lacrimevole: affrontare l’argomento utilizzando gli stilemi del film da festival è aggiungere sfida alla sfida con una certa dose di sorvegliata incoscienza. Partendo da simili, impegnativi premesse, l’esordiente ungherese Nemes realizza un’opera dalla controllatissima struttura formale attraverso la quale ricostruisce l’orrore dei campi di concentramento e, soprattutto, il livello zero di umanità in essi raggiunto: ne scaturisce un lavoro che, unendo mirabilmente estetica ed etica, colpisce con vigoroso impatto traendo forza dalla messa al bando di qualsiasi patetismo. Grazie all’ottimo contributo della fotografia di Mátyás Erdély, il regista sceglie un inusuale formato in 4:3 con cui pedinare attraverso ossessivi e lunghissimi piani sequenza (magistrali fin dal primo e tremendo riguardante la camera a gas) il protagonista adottandone il punto di vista pressoché autistico: la poca profondità di campo fa sì che le figure restino a lungo sfocate, mentre i suoni a volte anticipano la visione accentuando un effetto straniante provocato inoltre dal loro mischiarsi ai dialoghi pronunciati in una babele di lingue diverse. L’inquadratura di testa, collo e spalle di Saul si ripete e si prolunga, ma non risulta mai stucchevole sapendo raccontare alla perfezione di come gli uomini si chiudano in se stessi nel momento in cui, in condizioni estreme, è solo la sopravvivenza a contare: è ormai questa la condizione del prigioniero (che di cognome fa Ausländer, ovvero ‘straniero’ in tedesco), membro di un Sonderkommando, le squadre che si occupavano della rimozione di cadaveri nei lager. Dopo una delle tristi ‘docce’ allo Zyklon B, un ragazzo viene trovato che ancora respira e Saul pretende di scorgere in lui il figlio (che non ha mai avuto): quando il giovane muore, si intestardisce a cercargli un rabbino per le esequie, in una sorta di fissazione – la presenza del religioso non è necessaria per gli Ebrei – che gli consenta di sentirsi di nuovo un essere umano. Perché nel mondo in cui vive pietà l’è morta, visto che vi si alternano il sadismo nazista dei beffardi annunci ai morituri e della dettagliata contabilità degli ‘Stücke’ (i corpi), i rapporti di sudditanza psicologica fra vittime e carnefici, le relazioni di potere fra i capetti prigionieri, il cortile durante l’episodio della porta che disturba quanto quello finale del pasoliniano ‘Salò’, l’angosciante e impeccabile scena da bolgia dantesca della fucilazione notturna nel bosco. Saul non si cura neppure di rischiare di mandare all’aria con le sue mosse il tentativo di ribellione dei suoi compagni di sventura (ispirato alla rivolta dell’ottobre del 1944 ad Auschwitz), ma la scossa che ricava dalla vicenda riesce infine a regalargli un pallido sorriso, unico e tenuissimo lampo di speranza nella più fitta oscurità. La minuziosa attività di cesello cinematografico non poteva prescindere dagli attori e, in un gruppo di volti difficili da dimenticare, davvero si fatica a immaginare una scelta migliore di Géza Röhrig – anche lui per la prima volta sul grande schermo – che impersona Saul regalando alla sua figura un andatura sgraziata e, in special modo, un viso dall’espressione ferita che pare uscire dritto dagli anni Trenta. Le somma delle scelte stilistiche di Nemes costringono a seguire il suo interprete assieme alla cinepresa e, al contempo, a immedesimarsi con il personaggio fino a doversi confrontare di persona con le atrocità: se è necessario meditare che questo è stato, la rappresentazione brutale e sincera voluta dal regista magiaro è tanto impossibile da scordare quanto importante per interrogarsi sulle cause e, di conseguenza, sul rischio che analoghe aberrazioni si possano ripetere.
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zulu51
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martedě 2 febbraio 2016
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un occasione fallita
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Al di là del tema, molto importante del film e di quanto sia giusto, per la memoria di tutti, portare a conoscenza di un periodo storico, dominato dalla follia, nutro però molte riserve, per quanto riguarda la sceneggiatura, che presenta, a mio avviso, molti buchi, provo ad analizzare i punti che mi sembrano ben poco credibili: i prigionieri che arrivano al campo non sembrano affatto denutriti, lo stesso per il ragazzo trovato, ancora vivo, dall'aspetto sano e bello pulito, negli indumenti i prigionieri hanno non solo i documenti, ma anche oggetti di valore, questo vuol dire che non sono stati nè registrati, nè perquisiti, questo mi sembra molto strano, qualcuno potrebbe anche avere delle armi e passare inosservato.
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Al di là del tema, molto importante del film e di quanto sia giusto, per la memoria di tutti, portare a conoscenza di un periodo storico, dominato dalla follia, nutro però molte riserve, per quanto riguarda la sceneggiatura, che presenta, a mio avviso, molti buchi, provo ad analizzare i punti che mi sembrano ben poco credibili: i prigionieri che arrivano al campo non sembrano affatto denutriti, lo stesso per il ragazzo trovato, ancora vivo, dall'aspetto sano e bello pulito, negli indumenti i prigionieri hanno non solo i documenti, ma anche oggetti di valore, questo vuol dire che non sono stati nè registrati, nè perquisiti, questo mi sembra molto strano, qualcuno potrebbe anche avere delle armi e passare inosservato.
Alla fine dell'esecuzione il medico esegue l'autopsia, a che scopo?, dice pure che deve registrare tutti i cadaveri, ma come se non ha i documenti? Più tardi si vedono anche dei corpi, interi infilati nei forni, questi non hanno subito l'autopsia?
La facilità con cui i detenuti addetti a questo terribile servizio, si muovono nel campo, senza alcun controllo. Il comportamento del soldato tedesco, quando il protagonista viene sorpreso in una stanza dove non dovrebbe stare, che si mette a danzare attorno a Saul, canzonandolo in un modo ben poco tedesco, alla presenza di un ufficiale di alto grado. La facilità con cui Emma la prigioniera, consegna il pacchetto con la polvere da sparo al protagonista e poi perchè mandare lui, sapendo lo stato d'animo in cui si trova, sapendo che il suo ha unico scopo è quello di seppellire il cadavere di un ragazzo, che lui crede essere suo figlio, anche se diverse volte i compagni di prigionia gli fanno presente che lui non ha figli.
In un altra scena Saul ed un altro stanno scavando la fossa per la sepoltura e dietro passano dei soldati tedeschi, ma nessuno si cura di andare a vedere cosa stiano facendo.
Quando il protagonista, una volta avuto il pacchetto va a cercare il rabbino, senza preoccpuarsi prima di sbarazzarsi del pacchetto, tanto pericoloso, si spoglia per vestire il rabbino, altrimenti destinato ad essere ucciso e si trova lui adesso a dover cercare i vestiti, dove li trova? Quando poi si accorge di aver perso il pacchetto, i compagni di prigionia non lo strozzano, come forse avrebbero fatto nella realtà.
A questa punto la figura di Saul, diventa fastidiosa, fuori luogo, ossessionato com'è dal desiderio di dare sepoltura e recitare la preghierina, io credo che una persona in un incubo del genere, si preoccuperebbe di salvarsi e di salvare altri, invece di pensare ad un morto, ed infatti la fuga, fallisce anche per colpa sua, il rabbino probabilmente non è un rabbino, perchè quando deve recitare la preghiera, non la sa.
Anche la fuga e la rivolta sono troppo facili, non si capisce dove abbiano trovato le armi e come siano riusciti ad uscire.
Tutti questi fattori mi fanno dubitare molto della validità di questo film, che ha avuto molti consensi e probabilmente vincerà, senza meritarlo, l'Oscar, sull'inquadratura sempre puntata sul protagonista invece non ho niente da dire, rende bene l'idea di girone infernale che vuole dare, ma per il resto mi sembra che un tema, così tragico ed importante, andasse affrontato con una conoscenza storica più approfondita.
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[+] tuttavia.....
(di francesco2)
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filippo catani
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martedě 13 settembre 2016
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dramma claustrofobico
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1944. Un ebreo ungherese svolge un lavoro terribile nei campi di concentramento; scorta gli Ebrei alle camere a gas e ne ripulisce i resti. Un giorno l'uomo si imbatte nel cadavere del figlio e farà di tutto per dargli degna sepoltura.
Stupendo e terrificante questo film. Basterebbe la prima sequenza iniziale con la camera stretta sul viso del protagonista che ascolta inerme le laceranti grida d'aiuto di coloro all'interno della camera a gas. L'inquadratura è piccola e soprattutto la camera sta sempre su Saul e lo spettatore finisce per essere preso allo stomaco e anche lui diventa inerme spettatore della vicenda di Saul alla disperata ricerca di un rabbino che possa dare degna sepoltura al figlio.
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1944. Un ebreo ungherese svolge un lavoro terribile nei campi di concentramento; scorta gli Ebrei alle camere a gas e ne ripulisce i resti. Un giorno l'uomo si imbatte nel cadavere del figlio e farà di tutto per dargli degna sepoltura.
Stupendo e terrificante questo film. Basterebbe la prima sequenza iniziale con la camera stretta sul viso del protagonista che ascolta inerme le laceranti grida d'aiuto di coloro all'interno della camera a gas. L'inquadratura è piccola e soprattutto la camera sta sempre su Saul e lo spettatore finisce per essere preso allo stomaco e anche lui diventa inerme spettatore della vicenda di Saul alla disperata ricerca di un rabbino che possa dare degna sepoltura al figlio. La pellicola ci rende in tutto il suo orrore e in maniera assai semplice quella che era la vita dei campi e la vita di quegli ebrei che avevano questo terrificante compito e quello poi di decidere quali tra loro dovranno a loro volta essere condannati a morte. Film ungherese pluripremiato anche e soprattutto per la bravura del suo protagonista e per la scelta estrema del regista Nemes di farci partecipare in prima persona a ciò che avviene. Un film spaventoso che serve a scuotere le nostre coscienze affinchè ciò che è accaduto in passato non si ripeta mai più in futuro.
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laurence316
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sabato 31 marzo 2018
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imperdibile, tragico e originale film sulla shoah
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Esordio potentissimo, stilisticamente originale, pesante come un macigno, dell’ungherese Nemes (allievo di Bela Tarr), Il figlio di Saul è un’opera assolutamente imperdibile e memorabile.
Girata in formato 4:3, camera a spalla, per mezzo di ininterrotti primi e primissimi piani del protagonista e sfondi sempre sfocati, colori desaturati e totale, completa, assoluta assenza di musica, risulta essere un’opera per questo straniante, allucinante e a primo acchito spiazzante, eppure tremendamente efficace, incisiva e indimenticabile.
Non è una visione facile, ma del resto non si propone di esserlo. Nonostante, sostanzialmente, non mostri quasi nulla, risulta comunque paradossalmente più inquietante, opprimente e terrificante di tante altre opere sullo stesso tema.
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Esordio potentissimo, stilisticamente originale, pesante come un macigno, dell’ungherese Nemes (allievo di Bela Tarr), Il figlio di Saul è un’opera assolutamente imperdibile e memorabile.
Girata in formato 4:3, camera a spalla, per mezzo di ininterrotti primi e primissimi piani del protagonista e sfondi sempre sfocati, colori desaturati e totale, completa, assoluta assenza di musica, risulta essere un’opera per questo straniante, allucinante e a primo acchito spiazzante, eppure tremendamente efficace, incisiva e indimenticabile.
Non è una visione facile, ma del resto non si propone di esserlo. Nonostante, sostanzialmente, non mostri quasi nulla, risulta comunque paradossalmente più inquietante, opprimente e terrificante di tante altre opere sullo stesso tema. Il non visto, l’ossessivo sottofondo costituito dagli ordini e dalle imprecazioni delle SS, la trama semplice e lineare ma fortemente simbolica, bastano da soli a rendere tutto l’orrore e la crudeltà del campo di concentramento e sterminio nazista, nel quale risulta impossibile anche solo cercare di compiere un’operazione semplice e umana come quella di dare degna sepoltura ai morti.
Queste scelte stilistiche adottate dal regista bastano da sole a restituire tutta la tragicità e la disumanità della situazione, tra l’insensibilità degli aguzzini e l’ossessivo, disperato tentativo di sopravvivere delle vittime.
Il figlio di Saul è un film duro, quasi insostenibile, ma non truculento, capace di immergere lo spettatore nell’orrore senza scadere nel sensazionalismo. Un film in qualche misura persino poetico: “poesia che scaturisce dall’antitesi tra la violenza e l’odio, che accomunano SS e Sonderkommando, e l’amore e la pietà di Saul, simbolo della vita che risorge proprio nel regno della morte” (Morandini).
Un film imprescindibile, adatto ad ogni rassegna scolastica, che, con pochi altri, rappresenta una delle vette più alte mai toccate dalla lunga filmografia sulla Shoah. Meritatissimi il Gran Premio della Giuria a Cannes, il Golden Globe al miglior film e l’Oscar al miglior film straniero (secondo film ungherese della storia del cinema a vincere il premio [dopo Mephisto di István Szabó, risalente al 1981]).
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goldy
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sabato 23 gennaio 2016
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sconvolgente ma vivificante
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L'angoscia delle scene inziali spingono a lasciare la sala ma poi il rispetto e la condivisione verso le vittime della Shoah hanno il sopravvento e si trova la forza per continuare la visione.
Il film non lascia respiro e per gli assurdi della legge del contrappasso diventa un inno alla vita. La tenacia e l'apparente insesatezza del padre che vuole dare dignità alla morte del figlio nessunj altra spiegazione hanno se non la scoperta del senso di riverente rispetto verso la sacralità della vita.
In un mondo come quello attuale dove scoraggiamento e perdita di senso si fanno sempre più largo è davvero necessario scendere in un inferno come quello dei campi di concen
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L'angoscia delle scene inziali spingono a lasciare la sala ma poi il rispetto e la condivisione verso le vittime della Shoah hanno il sopravvento e si trova la forza per continuare la visione.
Il film non lascia respiro e per gli assurdi della legge del contrappasso diventa un inno alla vita. La tenacia e l'apparente insesatezza del padre che vuole dare dignità alla morte del figlio nessunj altra spiegazione hanno se non la scoperta del senso di riverente rispetto verso la sacralità della vita.
In un mondo come quello attuale dove scoraggiamento e perdita di senso si fanno sempre più largo è davvero necessario scendere in un inferno come quello dei campi di concentramento per recuparare il senso delle cose?
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