“ … tu che adesso scendi non guardarmi, ti dico, questo è un sentiero per ‘comici spaventati guerrieri’ e io non voglio nè vincere nè perdere, solo che tu mi ricordi (…)”
"Vengo con te," disse Lucia. Comici Spaventati Guerrieri (S. Benni)
Cosa saremmo senza i nostri ricordi? Privati delle capacità cognitive, della memoria del nostro passato, della lucidità nel ricordare gli affetti e le emozioni della nostra vita, siamo ancora noi stessi?
Sono domande spiazzanti che inevita-bilmente disorientano, difficili da affrontare. Crudeli come il morbo di Alzheimer, una malattia degenerativa che annienta le attività celebrali affievolendo giorno dopo giorno i ricordi e le capacità mnemoniche. Una patologia spietata, senza cure, che colpisce l’identità e la mente lasciando invece immune il corpo. Tra l’altro difficile da diagnosticare perché nello stadio iniziale ha dei sintomi comuni all’affaticamento e allo stress della normale vita quotidiana. E’ per questo che Alice Howland, brillante linguista di successo, docente alla Columbia University di New York, non dà molta importanza all’amnesia di alcune parole nel corso di una conferenza, o al senso di smarrimento nel parco in cui fa jogging da sempre. Il successivo responso medico sarà implacabile: Alice è affetta da una rara forma di Alzheimer precoce. La vita della protagonista e la serenità dell’affiatata e amata famiglia ne vengono sconvolte.
I registi Westmoreland e Glatzer scelgono però di lasciare sullo sfondo il dramma dei figli e del marito. Still Aliceè girato praticamente in soggettiva, al centro della storia c’è solo Alice, il suo coraggio e le sue fragilità, l’intima umanità con cui affronta la terribile evoluzione della malattia. Tutto è ricondotto al punto di vista della protagonista, spesso gli altri personaggi sono addirittura esclusi dal campo visivo, su alcuni dialoghi non c’è controcampo lasciando la camera fissa su Alice. Gli intensi primi piani del suo viso, le riprese sfocate, i campi lunghi sui particolari, il montaggio con frequenti salti temporali, ci permettono di “sentire” il dolore e l’intima tragedia che Alice Howland si trova ad affrontare.
Ma se si crea fin da subito una forte empatia con lo spettatore, che quasi accompagna da vicino Alice nella sua decadenza psichica, gran parte del merito è senza dubbio dell’immensa bravura di Julianne Moore.
La grande umanità con cui vive il calvario della malattia, l’evoluzione dello sguardo sempre più spento, il lento ma inesorabile decadimento della sua espressività dimostrano capacità attoriali straordinarie. Basti pensare alla scena in cui una Alice oramai “assente” guarda il video che aveva registrato all’inizio della malattia: sembrano due persone diverse che si guardano ma non si riconoscono, niente è più efficace per far comprendere la ferocia e la disumanità del morbo di Alzheimer.
Eppure Still Alice riesce a mantenersi equilibrato e sincero, commovente senza scadere mai nel melodramma e nel ricatto emotivo. La scelta di non mostrare il decorso finale della malattia, per esempio, dimostra intelligenza e grande sensibilità da parte dei registi. Va detto che per Richard Glatzer non era un film come un altro, lo ha fortemente voluto pur essendo malato nella fase terminale di SLA (sclerosi laterale amiotrofica), altra malattia tremenda, per ironia della sorte quasi opposta all’Alzheimer visto che devasta il corpo lasciando lucida la mente.
Il regista americano si è spento il 10 marzo 2015, tre settimane dopo il trionfo di Julianne Moore agli Oscar. Oltre alla splendida interpretazione dell’attrice protagonista occorre sottolineare anche quella di Kristen Steward, la figlia minore, inizialmente ribelle e conflittuale, che resterà con la madre per assisterla nella fase finale della malattia.
Tornando alla domanda iniziale - se senza ricordi siamo ancora noi stessi - la risposta più bella l’ha data Lisa Genova, autrice del romanzo Perdersi a cui è ispirato il film: “l’essenza e il valore di una persona non sono basate sull’intel-letto, sul linguaggio o sulla memoria … quando tutto è perduto l’amore è ancora lì, e tiene insieme la realtà, non solo le persone”.
E’ proprio in quell’ultima toccante parola pronunciata nella struggente scena finale, nell’ultimo sussulto di due occhi ormai inespressivi che Alice riassume e restituisce un senso alla sua vita, trovando un motivo per continuare a vivere. Nel nome dell’amore, dato e ricevuto, Alice c’è ancora. Still Alice.
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