gianleo67
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lunedì 3 febbraio 2014
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grottesca favola di una moderna precarietà sociale
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Antonio è un mite quarantenne, abbandonato dalla moglie, che si arrabatta ogni giorno con lavori precari e malpagati facendo il sostituto, per poche ore od un'intera giornata, nei più disparati contesti lavorativi e che ripone tutte le sue speranze e aspettative nel giovane e talentuoso figliolo che studia il sax e si esibisce con una jazz band. Il suicidio di una sua giovane amica, di cui è segretamente innamorato, e l'ennesima delusione professionale lo convincono ad emigrare, come umile operaio, in una miniera albanese. Ritornerà in Italia solo per incoraggiare il figlio afflitto da una grave crisi personale e professionale.
Foraggiato e prodotto con il sostanzioso contributo pubblico (Rai Cinema e Ministero della Cultura in primis) questa tragicommedia dai toni surreali e dal retrogusto amaro segna, con esiti modesti ed una preoccupante involuzione del linguaggio, il ritorno di Amelio sulla ribalta festivaliera lagunare dove passa (giustamente) quasi o del tutto inosservato.
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Antonio è un mite quarantenne, abbandonato dalla moglie, che si arrabatta ogni giorno con lavori precari e malpagati facendo il sostituto, per poche ore od un'intera giornata, nei più disparati contesti lavorativi e che ripone tutte le sue speranze e aspettative nel giovane e talentuoso figliolo che studia il sax e si esibisce con una jazz band. Il suicidio di una sua giovane amica, di cui è segretamente innamorato, e l'ennesima delusione professionale lo convincono ad emigrare, come umile operaio, in una miniera albanese. Ritornerà in Italia solo per incoraggiare il figlio afflitto da una grave crisi personale e professionale.
Foraggiato e prodotto con il sostanzioso contributo pubblico (Rai Cinema e Ministero della Cultura in primis) questa tragicommedia dai toni surreali e dal retrogusto amaro segna, con esiti modesti ed una preoccupante involuzione del linguaggio, il ritorno di Amelio sulla ribalta festivaliera lagunare dove passa (giustamente) quasi o del tutto inosservato. Pur incentrando il soggetto sugli allarmanti segni di una contemporanea precarietà sociale ed economica, sulle macerie di un'Italia post-industriale tra cui si muove, con garbata indolenza, lo spettro di un lavoratore senza identità e senza futuro incarnato dal camaleontico e ostinato ottimismo di Antonio Albanese, Amelio finisce per smarrire il senso di un discorso cinematografico altrove forte ed emozionante (L'America, La Stella che non c'è) ed incartarsi in una sorta di sgomento apologo su di una squallida modernità in cui sembrano frammentarsi e disperdersi non solo le qualità umane e professionali del protagonista ma finanche i suoi rapporti sociali e familiari, disgregando così il nucleo fondamentale di una smarrita convivenza civile. Alle buone intenzioni tuttavia non fa seguito una coerente e credibile scrittura cinematografica, pesando da un lato le indecisioni di una struttura narrativa incerta tra didascalismo (letterale) e metafora e dall'altro l'inconsistenza di personaggi che sembrano abbozzati su di uno sfondo scenografico posticcio, ridicole e patetiche macchiette che dovrebbero rappresentare i vizi o le virtù esemplari di un irredimibile individualismo sociale (dall'intrepido ed eroico protagonista al laido e cinico 'caporale', dal tormentato e talentuoso figlio sassofonista alla disperazione anaffettiva di una disadattata figlia di buona famiglia). Film che ci vuole dire qualcosa ma finisce per farlo poco e male, indebolito dall'incertezza di una forma cinematografica impropria e confusa (non propriamente nelle corde dell'autore) e da un'episodica concezione dello sviluppo narrativo, che cerca di far sorridere riflettendo (si diceva un tempo 'a denti stretti') ma finisce per suscitare solo una indistinta smorfia di irridente disapprovazione. Bravo come al solito Albanese nel cercare la quadra di un personaggio indecifrabile e caleidoscopico che ripropone con garbo e misura le coloriture dialettali di un apolide senza identità e senza futuro a cui basta la mattina riuscire ad avere un motivo per guardarsi ancora una volta allo specchio facendosi la barba.
Melanconiche note jazz nel finale struggente e didascalico. Un misterioso oggetto del desiderio artistico spiaggiato sulla battigia della laguna di Venezia quale simbolico naufragio di un cinema italiano che sembra aver smarrito definitivamente la propria identità.
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pier delmonte
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venerdì 24 gennaio 2014
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pensavo peggio
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qui bisogna mettersi d'accordo se preferiamo un albanese comico o moderatamente drammatico, siccome non mi fa sdraiare a terra dalle risate la versione comica ultima forse e' il caso che antonio albanese insista su questo genere, il film in questione mi e' piaciuto anche se moderatamente, ha bisogno di essere perfezionato, la storiella sentimentale buttata la', il tipaccio come amico, i due minuti di sax che potevano essere coperti con altre immagini, insomma, si puo' fare meglio
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maria f.
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domenica 19 gennaio 2014
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evviva i buoni film!
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Antonio Pane di mestiere fa il rimpiazzo. Questo ruolo non gli crea grandi difficoltà esistenziali, è una persona che ragionando sulla situazione attuale dell’intera classe lavoratrice, ha capito che così butta, e se si vuole mangiare, bisogna adattarsi.
La vita gli ha regalato una capacità notevole, quella di adeguarsi alle situazioni senza per questo dover diventare un delinquente, un farabutto.
E’ consapevole che quella che sta vivendo non è vita, per sopravvivere scava dentro di sé e tira fuori il meglio: farsi piacere tutti i lavori, anche se questi, gli sono offerti da “caporali” che spesso non lo pagano.
La sua filosofia è non lasciarsi andare, non abbattersi, avere insomma la scusa ogni mattina per alzarsi, radersi e affrontare così una giornata dove ci saranno tante sostituzioni: da scaricatore, a tranviere, a operaio, badante, sarto, venditore di rose…… il segreto per riuscire a sobbarcarsi tutto ciò è di collaborare fattivamente agli incarichi affidatigli quali, essi siano, insomma non riscaldare il posto passivamente.
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Antonio Pane di mestiere fa il rimpiazzo. Questo ruolo non gli crea grandi difficoltà esistenziali, è una persona che ragionando sulla situazione attuale dell’intera classe lavoratrice, ha capito che così butta, e se si vuole mangiare, bisogna adattarsi.
La vita gli ha regalato una capacità notevole, quella di adeguarsi alle situazioni senza per questo dover diventare un delinquente, un farabutto.
E’ consapevole che quella che sta vivendo non è vita, per sopravvivere scava dentro di sé e tira fuori il meglio: farsi piacere tutti i lavori, anche se questi, gli sono offerti da “caporali” che spesso non lo pagano.
La sua filosofia è non lasciarsi andare, non abbattersi, avere insomma la scusa ogni mattina per alzarsi, radersi e affrontare così una giornata dove ci saranno tante sostituzioni: da scaricatore, a tranviere, a operaio, badante, sarto, venditore di rose…… il segreto per riuscire a sobbarcarsi tutto ciò è di collaborare fattivamente agli incarichi affidatigli quali, essi siano, insomma non riscaldare il posto passivamente.
Nel frattempo si prepara per tempi migliori, legge, studia si prepara alla vita diversa che alla fine vagheggia, arriverà.
La sua povertà non gli impedisce tuttavia di turbarsi e di disgustarsi quando si accorge di aver accettato un rimpiazzo che consisteva nell’accompagnare un bambino all’incontro amoroso con un uomo, pensando che questi fosse un parente.
Antonio incarna uno dei tanti martiri della nostra società subordinati a gente menefreghista, cinica, erede di quei tanti orridi, abominevoli raccapriccianti zotici arroganti Cetto Laqualunque.
Un applauso immenso per la bravura di Albanese e per l’interpretazione notevole di Gabriele Rendina. Colonna sonora incantevole.
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(di gigin1002)
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riccardo tavani
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venerdì 10 gennaio 2014
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misconosciuto ma destinato alla rivalutazione
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Amelio ci mostra, senza falsa retorica, la nuda, cruda realtà della condizione di lavoro, e dunque di esistenza, di un’intera generazione. Anzi, dovremmo dire, di un’intera macro-generazione, in quanto non è più soltanto l’ultima generazione, ovvero quella dei più giovani. No, è un attraversamento di strati diversi di fasce di età, fino alla più adulta, se pensiamo alla beffa crudele inferta ai cosiddetti esodati, ovvero a coloro che, in procinto di andare in pensione, sono stati privati di ogni reddito e lasciati nudi alle nuove forme di intemperie sociali. Una cross-generazione per la quale, considerati gli elevati livelli di istruzione, è stato coniato il termine di cognitivato, in sostituzione di quello orami obsoleto di proletariato. Solo la fame, sia quella di giustizia che quella fisica, materiale, con i suoi morsi allo stomaco vuoto, rimane la stessa. Antonio Pane, questo il nome del personaggio interpretato magistralmente da Albanese, fa di mestiere il rimpiazzo. Lui rimpiazza quella moderna forma impermanente e polivalente di figura lavorativa che è il precario. Il suo cognome già lo dice: il pane si accompagna con qualsiasi tipo di companatico. Inoltre, il vocabolo pan, in greco antico, significa anche tutto, che sta dappertutto. Il suo livello di cultura è tale che in uno di quei concorsi monstre con migliaia di concorrenti, è in grado di compilare in pochi minuti e senza nessun errore le centinaia di quiz sottoposti e di consegnarli, segnalando ai professori addetti le scorrettezze linguistiche che essi contenevano. Il film ci mostra una congerie di lavori ad alta instabilità dei quali non avremmo immaginato neanche l’esistenza, né le assurde modalità di esecuzione. È il tema questo dell’estrema flessibilità, indifferenziazione di ruoli e prestazioni alle quali è sottoposto il macro-cognitivato contemporaneo. Più generica, immediatamente rimpiazzabile è la prestazione, più dura è la condizione di sfruttamento, sotto retribuzione e umiliazione di questa cross-generazione acculturata e raffinata nei sentimenti, nei desideri e nelle idee. A una condizione senza più dio né tetto né legge corrispondono anche lavori di questa risma fuori ormai di ogni norma etica e morale. Una condizione imposta brutalmente quanto illegalmente dal capitale finanziario e monetario, ben rappresentato in una scena del film, come uno strabiliante ammasso di belle scatole vuote nel sottoscala di un negozio di scarpe nel quale L’uomo, come la scatola, la confezione deve apparire bello, infiocchettato ma essere un vuoto: un vuoto, un corpo, una mente a perdere, da consumare, logorare come un qualsiasi altro mezzo, strumento. Eppure Immanuel Kant, uno dei padri dei valori fondanti la nostra civiltà ha lasciato scritto: “L’imperativo pratico deve dunque essere il seguente: agisci in modo, da non usare mai l’umanità sol come mezzo, ma pur sempre come fine tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro”. Un film destinato ad essere riscoperto, riconosciuto nel suo stringente valore poetico, drammatico e di verità. È l’esordio di una nuova forma di neo-realismo italiano, il quale ha richiamato per molti la lezione del 1951 di De Sica e Zavattini in Miracolo a Milano.
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alknoss
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martedì 7 gennaio 2014
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il cinema italiano sempre più in letargo
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Oh mio Dio... il film è la rappresentazione vivente dello stato di salute in cui versa il nostro cinema. Sceneggiatura da lungometraggio amatoriale, una storia così inverosimile e povera di contenuti da non averla mai vista prima. Ma ve lo immaginate uno che fa il rimpiazzo di qualsiasi lavoro nella realtà? Mai sentito dire e forse mai realizzabile. Il film risulta scadente a mio parere, forse l'unica nota positiva è Albanese che comunque ritrae bene lo sfigato di turno.
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liuk!
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venerdì 3 gennaio 2014
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implausibile
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Commedia amara per il duo Amelio/Albanese che decisamente non convince. Si fa leva sulla crisi e sui lavori occasionali per costruire una pellicola artificiale, forzata ed incentrata unicamente su un Albanese abbastanza in forma ma lontano dal suo genere e dal genere dove il pubblico lo riconosce.
Nel complesso un prodotto scarso che annoia e che non si fa ricordare.
[+] il succo del discorso
(di gianleo67)
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eugenio
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giovedì 2 gennaio 2014
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il gioco del rimpiazzo
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Nella pulsante Milano, colma di luci e di altrettanti ombre esiste un substrato di lavoratori che “sopravvive” con lavori stagionali, spesso in nero e sottopagati in condizioni ultra-precarie privi di sicurezza e stabilità.
E’ una pagina di cronaca scottante che non coinvolge soltanto lavoratori extra-comunitari ma anche (e soprattutto) in quest’ultimo periodo italiani. Gente che prima disponeva di una vita sufficientemente agiata, un lavoro e una famiglia si trova improvvisamente costretta dalla crisi ad abbandonare i propri progetti, sogni e speranze affogando giorno dopo giorno nella disperazione più nera. In pratica, cessa di vivere pur vivendo.
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Nella pulsante Milano, colma di luci e di altrettanti ombre esiste un substrato di lavoratori che “sopravvive” con lavori stagionali, spesso in nero e sottopagati in condizioni ultra-precarie privi di sicurezza e stabilità.
E’ una pagina di cronaca scottante che non coinvolge soltanto lavoratori extra-comunitari ma anche (e soprattutto) in quest’ultimo periodo italiani. Gente che prima disponeva di una vita sufficientemente agiata, un lavoro e una famiglia si trova improvvisamente costretta dalla crisi ad abbandonare i propri progetti, sogni e speranze affogando giorno dopo giorno nella disperazione più nera. In pratica, cessa di vivere pur vivendo.
Di storie così il cinema abbonda e non suona originale l’ultimo film in concorso al precedente festival del cinema di Venezia di Gianni Amelio L’intrepido incentrato sulla figura di Antonio Pane, emblema del precariato all’ennesima potenza che ogni giorno sostituisce i “titolari, quelli che un posto di lavoro l’hanno ancora, nelle loro mansioni quotidiane. Un supplente tuttofare assunto e licenziato anche solo dopo una mezza giornata in grado di eseguire opere di muratura, di guidare un tram, di lavare piatti, di usare una vecchia Singer per opere di cucitura per poi rincasare stanco in un bilocale di ringhiera affacciato direttamente sulla stazione e di mettersi costantemente a studiare alla ricerca di un futuro migliore.
La precarietà dell’esistenza di Antonio è riflessa negli affetti familiari, figli di una solitudine e di una frammentarietà avuti luogo dopo la separazione dalla moglie che ha scelto qualcuno con un futuro assai più roseo, un imprenditore nel campo delle scarpe. A questi si aggiunge la delicata condizione del figlio per fortuna non più adolescente ma comunque ansioso e fragile per gli studi al conservatorio da sassofonista di contralto; un figlio che malgrado la sua precarietà si prende teneramente cura del padre che immancabilmente rifiuta ogni sostegno economico.
Perché Antonio Pane (interpretato da un Antonio Albanese più oscuro e drammatico del solito) è un uomo coerente, moralmente dignitoso, sempre col sorriso sulle labbra, fiducioso in quel genere umano che spesso non sembra ripagarlo della sua benevola intenzione. Generoso d’animo, Antonio, durante un concorso pubblico, conosce Lucia, la sua “controparte” specchio delle determinazione professionale dei giovani under 30 definiti choosy dal ministro Fornero, incapaci di poter trovare aspirazioni professionali consone ai propri studi ma non per questo rinunciatari e impotenti. Lucia accetta il conforto di Antonio, le due anime paiono congiungersi, trovare un punto di incontro comune, in un connubio che malgrado le buone intenzioni iniziali, non sarò mai propriamente goduto.
Amelio abbandonati i riferimenti letterari esistenzialisti del Primo uomo di Camus, traccia il ritratto denigrante di un’Italia sull’orlo di un abisso di cui pare non scorgersi il fondo, un’Italia di gente senza scrupoli, arrivisti venditori di fumo (come il nuovo compagno della moglie di Antonio) ma anche di lavoratori indefessi e disciplinati.
Albanese, nel suo one-man-show è abile nel conferire al personaggio una giusta aurea mediocritas senza scadere nel pathos o , peggio ancora, nella sua pietà ma la sua verve qui è schiava di una sceneggiatura caratterizzata da troppe “ombre”. Ombre nel voler confondere la dimensione provata affettiva sia familiare che non col contesto sociale, nel muovere il protagonista attraverso un dedalo di macchiette talvolta senza la giusta contestualizzazione, nel voler spostare senza un preciso schema logico l’attenzione sulla “storia alternativa” del figlio studente e delle sue paturnie esistenziali al concerto.
Le premesse c’erano e per buona parte del primo tempo, il film appare un’intelligente e costruttiva analisi sulla condizione dei quarantenni disoccupati d’oggi ma l’attenzione via via scema nella ripetizione stancante di lavoretti instabili o di fugaci quanto amare amicizie, un aspetto che la sceneggiatura non fa che evidenziare negativamente.
Mezza stella in più per la bravura di Albanese e per la fotografia di una Milano livida,dura e operaia. Ma è troppo poco. Peccato.
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giurg 63
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sabato 28 dicembre 2013
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noioso one man show
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Il film ruota interamente attorno ad Antonio Albanese, la cui recitazione da interprete drammatico è troppo monocorde e prevedibile. La figura problematica del figlio è eccessivamente accentuata, mentre le due figure femminili, che a stento appaiono nella pellicola sono insignificanti ed evanescenti. Il risultato è un film cupo, trascinato e noioso. Se si vuole riflettere sulla lotta per la quotidiana sopravvivenza è di gran lunga preferibile la visione di "Gli equilibristi," di Ivano De Matteo (2012), interpretato da un più che convincente Valerio Mastrandrea.
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don64
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lunedì 23 dicembre 2013
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film intenso
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Intensa ed ottima recitazione dell'ormai noto attore A.Albanese che a mio parere e' piu' portato ad un ruolo drammatico piu' che ironico.Buona la trama e la storia narrata che sembra tratta da una storia vera.Voto 8
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boris yellnikov
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venerdì 20 dicembre 2013
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falso e cupo.
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Ma dài, tutte 'ste parole: film orrendo e noioso. Con Amelio che fa sfoggio snob intellettuale e sparge disgrazie a tutto spiano, in una sequenza di catastrofi che è forzata ed eccessiva perché nemmeno la vita (precaria) vera è così. Rimane l'espressività di Albanese, bravissimo, in un film che dietro il suo non concedere speranze (se non qualche barlume gettato lì,messo però fra un suicidio ed esagerate crisi isteriche o di panico) è semplicemente brutto e mortifero. E fatto pure coi soldi nostri, visto che produce la Rai.
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