gianni quilici
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mercoledì 16 ottobre 2013
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film coraggioso, ma discutibile
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L’intrepido di Amelio: sì o no? Sì.
Perché? Perché è un film, anche se discutibile, coraggioso e onesto, cioè non furbo, e cinematografico.
E’ coraggioso, perché presenta come protagonista un “idiota dostoevskiano”, che appare (o è) agli occhi degli spettatori, più simbolico che realistico, senza far ridere (come Charlot), e senza false drammatizzazioni o peggio sentimentalizzazioni.
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L’intrepido di Amelio: sì o no? Sì.
Perché? Perché è un film, anche se discutibile, coraggioso e onesto, cioè non furbo, e cinematografico.
E’ coraggioso, perché presenta come protagonista un “idiota dostoevskiano”, che appare (o è) agli occhi degli spettatori, più simbolico che realistico, senza far ridere (come Charlot), e senza false drammatizzazioni o peggio sentimentalizzazioni.
L’intrepido non è , come si è scritto, una commedia; è una tragedia aperta tuttavia al futuro. La tragedia è in Antonio, il protagonista, che però non l’accetta, ma soprattutto nei due giovani, suo figlio, un talento creativo senza sbocchi, e la ragazza, Lucia, che occasionalmente conosce. Tragedia che Gianni Amelio ha il merito cinematografico di lasciare il più possibile implicita, e di far vedere più che di dire.
L’apertura al futuro è nel protagonista che, nella sua bontà, spesso autolesionista, evita il conflitto diretto, preferendo istintivamente subire o fuggire, non rassegnandosi e conservando dignità e umanità.
Questo a me pare anche il limite del film, perché sottolinea un’identificazione di Amelio con il protagonista. Antonio non viene mai messo in discussione, neppure quando le sue scelte appaiono così deboli, da diventare poco credibili, masochistiche: lui che vende i fiori nei ristoranti per finire, alla fine, in Albania in una miniera. Ne’ sono convincenti la figura materna della sua ex moglie e del suo nuovo compagno, invece, cinico e arrogante.
La parte più riuscita del film è forse nel rapporto con la ragazza. Antonio affettuoso e creativo; lei percettiva ed essenziale con una disperazione appena accennata, ma veritiera. E nella fotografia di Luca Bigazzi, che disegna una Milano buia e anonima tra uffici, cantieri e strade senza anima.
Antonio Albanese si conferma un attore duttile, capace di utilizzare con sobrietà più registri: ironico e disperato, malinconico e seduttivo; mentre i due debuttanti Livia Rossi e Gabriele Rendina hanno il volto e le espressioni giuste.
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alex2044
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venerdì 4 ottobre 2013
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un'occasione sprecata
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Una bella idea , un ottimo attore ben dentro la sua parte , un grande regista ma il film non decolla .
Meglio la seconda che la prima parte ma viste le premesse un'occasione sprecata .
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lisa casotti
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venerdì 4 ottobre 2013
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pane albanese
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Mi è parso un film inutile di cui mi è sfuggito il significato.
Non mi sembra nemmeno si possa definire un discorso sulla precarietà visto che il protagonista sceglie di fare il “rimpiazzo a ore” quasi per vocazione (lo dichiara nel dialogo che ha con Lucia). A voler pensare bene e a dirne fin troppo bene: Antonio Pane sostituisce gli altri per aiutarli a realizzarsi, o almeno questo suggerisce il finale, quando motiva il figlio a reagire. Ma a parte quel poco di tenerezza che ispira, retto e caparbio nel cercare il lato positivo e abituato a comunicare con perle di saggezza, il suo sguardo incantato sul mondo non basta a riempiere i vuoti di senso e men che meno a spazzare le brutture del reale.
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Mi è parso un film inutile di cui mi è sfuggito il significato.
Non mi sembra nemmeno si possa definire un discorso sulla precarietà visto che il protagonista sceglie di fare il “rimpiazzo a ore” quasi per vocazione (lo dichiara nel dialogo che ha con Lucia). A voler pensare bene e a dirne fin troppo bene: Antonio Pane sostituisce gli altri per aiutarli a realizzarsi, o almeno questo suggerisce il finale, quando motiva il figlio a reagire. Ma a parte quel poco di tenerezza che ispira, retto e caparbio nel cercare il lato positivo e abituato a comunicare con perle di saggezza, il suo sguardo incantato sul mondo non basta a riempiere i vuoti di senso e men che meno a spazzare le brutture del reale. Lucia purtroppo è un personaggio mozzato e la crisi di panico di Ivo somiglia più che altro a una crisi d’astinenza.
Bella solo la Milano delle grandi opere, degli spazi alternativi e/o periferici, resa imponente dall’ottima fotografia. E il caro Albanese, buono come il Pane, che riesce a non apparire ridicolo in un ruolo così borderline.
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gufetta76
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martedì 1 ottobre 2013
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tifo per i tifosi
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Un grandissimo intensissimo Albanese.Questo film ha una fotografia superlativa,Milano incarna lo stato d'animo urbano squallido, triste, anonimo.Luca Bigazzi ha superato se stesso. La regia è veloce nonostante il tema trattato sia pesante e tragico.La trama può apparire un pò sconclusionata, ma i tempi che viviamo sono
sconclusionati, quindi penso sia un effetto voluto.La disoccupazione destabilizza, umilia e intristisce, e questo Amelio lo racconta bene, a volte lo rende più leggero mettendoci su l'ironia e una bella colonna jazz. Il finale aperto, apre anche alla speranza e all'amore che non si fa domande sul futuro.
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pietrusco
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domenica 22 settembre 2013
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bentornato neorealismo
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Finalmente un "cinema " impegnato.
Storia onirica che sfocia nella realtà più viva.
Un piacere per gli appassionati di cinema.
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tiberiano
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domenica 22 settembre 2013
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una fiaba amarissima
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Antonio Pane sembra uscito da una fiaba di altri tempi, tanto è improbabile il personaggio interpretato da Albanese, qui in un ruolo per nulla comico o grottesco.
Ingenuo a livelli patologici, portato ad aiutare gli altri senza chiedere nulla in cambio, magari mettendoci pure di tasca sua. Disponibile a oltranza anche sul piano lavorativo, sa far tutto, ma senza tutele, diritti o pretese.
Una specie di tappabuchi factotum, per incarichi di basso profilo, a breve termine e a costo quasi nullo. il profilo ideale del lavoratore dipendente nel XXI secolo, se vuol esserci una metafora ideologico-sociale, in questo film.
Una macchietta amarissima, come tutta la storia, ambientata in una Milano crepuscolare, decadente, periferica e proletaria, assai ben resa dalla fotografia di Bigazzi.
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Antonio Pane sembra uscito da una fiaba di altri tempi, tanto è improbabile il personaggio interpretato da Albanese, qui in un ruolo per nulla comico o grottesco.
Ingenuo a livelli patologici, portato ad aiutare gli altri senza chiedere nulla in cambio, magari mettendoci pure di tasca sua. Disponibile a oltranza anche sul piano lavorativo, sa far tutto, ma senza tutele, diritti o pretese.
Una specie di tappabuchi factotum, per incarichi di basso profilo, a breve termine e a costo quasi nullo. il profilo ideale del lavoratore dipendente nel XXI secolo, se vuol esserci una metafora ideologico-sociale, in questo film.
Una macchietta amarissima, come tutta la storia, ambientata in una Milano crepuscolare, decadente, periferica e proletaria, assai ben resa dalla fotografia di Bigazzi.
Antonio è fallimentare anche sul piano affettivo, ha una ex-moglie (che incontrerà per caso una sera in un ristorante, in una delle scene più deprimenti di tutto il film) e un figlio musicista, con cui ha un rapporto gratificante, ma problematico; rapporto che, a conti fatti, rappresenta la parte edificante del film, che troverà il suo culmine nel finale.
Lo sviluppo narrativo presenta alcune lungaggini, che danno al film un taglio un po' documentaristico (il mercato ittico, la lavanderia, lo stadio, la biblioteca, i palloncini sotto il palco sindacale) lungaggini che si potevano evitare, essendo di suo il film tutt'altro che dinamico e avvincente.
Amelio non lascia molta speranza ai giovani (qui pochi, disperati e senza un futuro definibile), presenta una prospettiva buonista della globalizzazione, (un minimo di rapporti sociali Antonio li ha soltanto con i vicini nordafricani fino a trovare una sistemazione in una miniera in Albania, assai improbabile come Terra Promessa, per un italiano di mezza età senza un lavoro fisso !). Il contesto milanese e nazionale non ne esce bene: caporalato urbano becero, riciclaggio di denaro sporco mediante eleganti negozi di facciata, il lavoro manuale e artigianale, un tempo eccellenza italiana in molti ambiti, oggi squalificato e sottoretribuito (oggi fanno tutto i cinesi, si sa).
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artefice
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domenica 22 settembre 2013
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invece si'!
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Consiglio invece di non perdere assolutamente il film, per molti versi magistrale (sceneggiatura, regia, fotografia e recitazione del protagonista), che offre una lettura piacevolmente delicata di questioni fondamentali della nostra attualità: crisi del lavoro, rapporti familiari.
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enzo70
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domenica 22 settembre 2013
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albanese resiste, ma il fiato è ormai corto
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Un film che vorrebbe essere intenso, ma che alla fine dei conti rischia di rivelarsi noioso. Albanese interpreta, bene, un uomo che vuole lavorare ai tempi dello spread. Antonio Pane accetta tutti i lavori e non per questo si ritiene precario. Lui lavoro perché ha bisogno di lavorare e perché gli piace lavorare. Quante volte ho ripetuto questo termine in poche righe? Perché il leit motiv del film è proprio questo, il lavoro come rimedio, il rimedio ad un matrimonio fallito, alle incomprensioni con il figlio ed ad un amore impossibile. In questo film di D’Amelio il velo di tristezza è reso anche dall’impianto fotografico e scenografico, che , non a caso, in diversi passaggi rievoca le scene dei film di Charlotte.
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Un film che vorrebbe essere intenso, ma che alla fine dei conti rischia di rivelarsi noioso. Albanese interpreta, bene, un uomo che vuole lavorare ai tempi dello spread. Antonio Pane accetta tutti i lavori e non per questo si ritiene precario. Lui lavoro perché ha bisogno di lavorare e perché gli piace lavorare. Quante volte ho ripetuto questo termine in poche righe? Perché il leit motiv del film è proprio questo, il lavoro come rimedio, il rimedio ad un matrimonio fallito, alle incomprensioni con il figlio ed ad un amore impossibile. In questo film di D’Amelio il velo di tristezza è reso anche dall’impianto fotografico e scenografico, che , non a caso, in diversi passaggi rievoca le scene dei film di Charlotte. Fino a qua tutto bene, ma Albanese ha perso quel carattere di originalità e di profonda diversità dai clichet del cinema contemporaneo italiano, elementi che hanno caraterizzato i suoi primi film, per appiattirsi nel consueto politicamente corretto dei nostri tempi. Alla fine il film non rende quanto potrebbe e la stessa interpretazione di Albanese sconta un certo tipo di conformismo. Nonostante le premesse ci fossero tutte. Comunque, è un film che andrebbe visto, alcune trovate sono intelligenti ed il regista, si vede, conosce il mestiere. Ma non aspettatevi altro.
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ema77
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sabato 21 settembre 2013
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perche` un sostituto
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Il tema principale delle scene é la difficoltà per diversi lavoratori precari di trovare un sostituto quando hanno un problema o non stanno bene. Albanese risponde a questa esigenza sostituendosi a lui. Alla fine poi si sostituisce al suo stesso figlio in un momento di grave difficoltà. C'e` quindi un riflesso tra precarieta` sul lavoro e precarieta` affettiva, che culmina col suicidio della ragazza. Il figlio invece si salva perche` trova a sostituirlo il padre. Il peggio e` invece quando la precarietà lavorativa riecheggia quella affettiva.
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aldot
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sabato 21 settembre 2013
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buoni propositi esito mediocre
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Bella l'idea ma il risultato è mediocre. Qs pacatezza di Albanese rischia per essere scambiata per una tiepida interpretazione.
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