Cesare deve morire

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Un film di Paolo Taviani, Vittorio Taviani. Con Cosimo Rega, Salvatore Striano, Giovanni Arcuri, Antonio Frasca, Juan Dario Bonetti.
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Docu-fiction, durata 77 min. - Italia 2012. - Sacher uscita venerdì 2 marzo 2012. MYMONETRO Cesare deve morire * * * 1/2 - valutazione media: 3,75 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

carcere ed arte Valutazione 4 stelle su cinque

di pepito1948


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giovedì 8 marzo 2012

Nel 1989 Nanni Loy realizzò “Scugnizzi”, film incentrato sull’allestimento di un musical presso il San Carlo di Napoli con la partecipazione di ragazzi del riformatorio di Nisida. Le prove e le scene dello spettacolo si intrecciavano con le storie personali dei protagonisti (molti attori erano presi dalla strada) mediante l’alternarsi di piani temporali diversi, fino ad una conclusione tragica e speranzosa insieme. Il film non ebbe successo, sembra perché la commistione tra delinquenza (minorile) e arte non era ancora nelle corde del pubblico e della critica di allora.  Ciò in cui fallì Loy è invece riuscito ai fratelli Taviani, che, genialmente, hanno riproposto lo stesso schema ma con varianti fondamentali: un gruppo di detenuti condannati a lunghe pene accetta di girare un classico di Shakespeare come il “Giulio Cesare” nei locali di Rebibbia. Non ci sono attori professionisti, ciascuno interpreta se stesso e si esprime nel proprio dialetto per marcare la propria individualità, la location non fuoriesce dai muri del carcere, l’opera scelta è una tragedia famosa che in  qualche modo consente un’identificazione catartica degli interpreti; infatti potere, tradimento, sangue, delitto, onore, libertà, morte sono i temi forti che hanno contrassegnato le vite degli attori e che quindi consentono di creare un arco voltaico tra spettacolo teatrale e sfera evocativo-emozionale di ciascun interprete. A tutto vantaggio della ottimizzazione della recitazione, ma anche per dare ai reclusi un’occasione di riflessione sui propri errori e di ricreazione di un’identità inquinata dalla colpa. La vicenda, realizzata come una docu-fiction, si snoda sostanzialmente in tempo continuo; le divagazioni personali (interazioni  e dialoghi intimi tra attori) sono appena accennate e rimangono nell’alveo del racconto in diretta, a differenza dei flash-back del film di Loy; i  piani narrativi –prove, recita, momenti privati- si alternano e quasi si confondono armonicamente, con conseguente sfumatura dei confini tra finzione e realtà, fino a sfociare nell’apoteosi della rappresentazione finale che unisce idealmente recitanti e pubblico plaudente. Fine dello spettacolo, fine della temporanea fuga dalla dura realtà quotidiana; i detenuti, spogliati degli abiti di scena, rientrano nelle rispettive celle, un po’ mesti, un po’ forse arricchiti da un’esperienza  che ha lasciato il segno,  tra il rumore freddo ma ormai familiare delle serrature azionate dai secondini. I Taviani, genialmente, dopo aver introdotto il momento clou dello spettacolo –l’uccisione del tiranno- con colori cupi ma di forte contrasto, passano improvvisamente al bianco e nero, dando un segnale visivo di freddo grigiore che connota, fisicamente e psicologicamente, il luogo- simbolo della non libertà e orientando le sensazioni, ancora incerte, dello spettatore. Che, attraverso lo sviluppo del dramma rappresentato e i riferimenti ai drammi, questi veri e reali, degli attori-detenuti, prenderà coscienza di quanto sia potente, tra gli altri, l’effetto dell’arte di sublimazione ed elevazione dell’animo umano, anche di quello corrotto dalla colpa. “Da quando ho scoperto l’arte, questa cella è diventata una prigione”, elucubra  “Cassio”. E se l’arte è massima sublimazione, il carcere per contrasto è uno degli aspetti più orridi della vita, come sembrano ricordarci le inquadrature esterne finali di Rebibbia, che richiamano il simbolico mostro marino dell’epilogo della Dolce vita.

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