Cesare deve morire

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Un film di Paolo Taviani, Vittorio Taviani. Con Cosimo Rega, Salvatore Striano, Giovanni Arcuri, Antonio Frasca, Juan Dario Bonetti.
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Docu-fiction, durata 77 min. - Italia 2012. - Sacher uscita venerdì 2 marzo 2012. MYMONETRO Cesare deve morire * * * 1/2 - valutazione media: 3,75 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

L'oro dei Taviani Shakespeare in bianco e nero dietro le porte della galera

di Natalia Aspesi La Repubblica

Il film ha vinto il massimo premio al festival di Berlino, e noi italiani molto contenti, tanto più che è da un bel po' che il nostro cinema viene ignorato, e non per spudorata cattiveria. Brontolii invece dai giornali tedeschi e si temeva che potessero avere ragione: per fortuna no, edè con gran sollievo che si può dichiarare che Cesare deve morire ci restituisce i grandi Taviani, vuoi con berretto o senza e comunque indistinguibili, Paolo e Vittorio, ottantenni tuttora coraggiosi e geniali. I due fratelli ci hanno dato opere meravigliose, entrate nella storia del cinema, negli anni in cui qui si pullulava di registi e attori grandiosi e chi li ha visti allora ed è tuttora vegeto, è stato fortunato: belli tutti, indimenticabili San Michele aveva un gallo, Allonsanfan, Padre padrone. Certo Cesare deve morire poteva essere scontato, tendente al sentimentalismo, insomma una barba, adesso poi. Invece proprio oggi rispunta il piacere di riscoprire il bel cinema, o comunque un cinema che non ottunde ma resta nei pensieri, arricchendo la vita. E il film dei Taviani è di questo genere; non perché è girato nel carcere di Rebibbia, non perché i suoi attori sono carcerati, non perché recitano una sceneggiatura tratta dal Giulio Cesare di Shakespeare, non perché questo teatro carcerario esiste davvero, diretto dal regista Fabio Cavalli. E neanche perché spinge alle lacrime un suo affezionato pubblico che si emoziona a passare tutte quelle porte di ferro e quelle sbarre e quei chiavistelli, con un cartellino sul petto e le guardie che frugano nelle borse. Già solo a raccontarlo così si potrebbe temere il peggio: ma l'hanno girato i Taviani e con loro è diventato un film molto bello, severo eppure luminoso di intelligenza, che certo regala emozioni, forse dolenti ma mai dolciastre: perché c'è sempre il pericolo che vedendo un gigantesco Cesare con toga composta da un lenzuolo tenuto assieme da una spilla da balia, cadere a terra trafitto da numerose pugnalate di cartone, e Antonio in jeans con marchio prestigioso declamare sul cadavere di Cesare il famoso «Coloro che hanno compiuto questo atto sono uomini d'onore...» si vorrebbe portarli con sé a casa. Invece non si può, certi scontano una pena fine vita, per mafia, camorra, omicidi, efferatezze tremende. E se mai, il cuore dei Taviani ci fa capire che se quei carcerati che stanno scoprendo nel teatro, nei libri, nella cultura, un altro modo di essere uomini, avessero vissuto in un mondo diverso da quello che gli è toccato, forse non sarebbero lì, a passare le loro giornate distesi su una branda, a fissare il soffitto, giorno per giorno, per anni o per sempre. Cesare deve morire comincia e finisce, a colori, sul palcoscenico del teatro carcerario dove, con scene e costumi sommari, per la regia di Cavalli, si conclude la tragedia di Shakesperare. Fanno festa gli attori, subissati di applausi, nel momento in cui escono per pochi minuti dalla loro stessa vita dolente e furibonda. Quando ad uno ad uno già inghiottiti dalla loro umiliazione, aspettano a testa bassa e in silenzio, che il secondino richiuda la doppia porta della cella alle loro spalle, inizia, in bianco e nero, il film dei Taviani. Un vero film, non un documentario, un film dove tutti senza dimenticare se stessi diventano altro, Cassio, Cesare, Ottaviano, Cinna, Bruto: mancano naturalmente Porzia e Calpurnia, non ci sono donne in un carcere maschile. Quando iniziano i provini per trovare gli attori, subito quelle facce, quei dialetti, quel desiderio che accende gli sguardi, quel lindore delle magliette, quelle barbe perfettamente tagliate, e i braccialettini, le collane, il bisogno di normalità e di grazia, il desiderio di non portare su di sé il marchio del criminee del carcere, è grande cinema. Ecco Cesare, condannato a 17 anni per traffico di stupefacenti, in galera dal 2001 (ha scritto il libro Libero dentro ), ecco Cassio, fine pena mai per omicidio, in galera dal 1975, ecco Bruto, 14 anni e 6 mesi, per estorsione di stampo camorristico, libero con indulto e ora attore (si chiama Sasà Striano) che ha recitato in Gomorra, con registi come Abel Ferrara e sta lavorando nella fiction Il clan dei camorristi: ha rivisto i compagni di carcere, come uomo libero, per i Taviani, ed è molto bravo. Le parole di Shakespeare sfumano nella quotidianità carceraria, drammatizzate dal dire pesantemente romano, o siciliano, o napoletano, o pugliese. L'amicizia, il tradimento, la sconfitta, la rinuncia, la crudeltà, il senso dell'onore, la vendetta, raccontate da Shakespeare, entrano nelle celle, illuminano le notti interminabili, annebbiano le sbarre, colorano i corridoi, i cunicoli, i cortili per l'ora d'aria, la biblioteca, il grigiore e lo squallore delle ore. Quando la recitaè finita, Cassio, fine pena mai, in solitudine, rinchiuso, si fa un caffè. Il talento dei Taviani è di aver evitato un facile processo di identificazione tra gli attori e i personaggi. Il teatro non cancella il carcere, né Shakespeare la colpa e la pena.
Da La Repubblica, 1 marzo 2012


di Natalia Aspesi, 1 marzo 2012

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