
Tra logica e avventura nel sequel con Robert Downey Jr.
di Roy Menarini
La sorpresa di trovare Sherlock Holmes alle prese con furiose scazzottate e attentati esplosivi non si è esaurita col primo capitolo della nuova saga ideata da Guy Ritchie. Sherlock Holmes – Gioco di ombre compie la definitiva trasformazione dell’eroe di Conan Doyle in personaggio da fantascienza “steampunk”. L’avventura, più che il ragionamento classico, è l’orizzonte del protagonista interpretato dall’anfetaminico Robert Downey Jr.
Ma si sa, l’avventura è un genere dalle caratteristiche ibride. Se pensiamo al concetto classico, tra sultani, pirati, confini del mondo e del sogno, dobbiamo concludere che si tratta di una eredità dell’800, che il cinema ha esaltato nel secolo successivo, per poi esaurirla a contatto con la contemporaneità. Se invece estendiamo la nozione, allora scopriamo che l’avventura si è rifugiata nel mondo delle nuove tecnologie, tra la motion capture (e Le avventure di Tintin ne rappresenta il simbolo più visionario e cinefilo) e il videogame (si pensi al vasto repertorio del fantasy adventure).
Il sequel di Ritchie esalta questa seconda opzione e spedisce un personaggio archetipico del thriller e del mystery nella landa dell’azione e dell’avventura tecnologica, ad alta gradazione di effetti speciali. Non è certo la prima volta che il geniale Holmes – il personaggio più rappresentato nella storia del cinema – viene stravolto e riscritto. Lo abbiamo trovato persino sul lettino di Sigmund Freud (Sherlock Holmes: soluzione sette per cento) e reduce dalla guerra odierna in Afghanistan (nella recente serie Sherlock ideata da Steven Moffat, non a caso sceneggiatore dell’ultimo Spielberg: e tutto torna). Tuttavia, questa rielaborazione sul ciglio della fantastoria e sull’orlo della letteratura di Verne merita molta attenzione. Il secondo capitolo, in particolare, sceglie di raddoppiare la sfida e gettare in scena Moriarty, facendone un mostro di abominio, nazista ante litteram, inventore crudele, pugile capace, diabolico complottista. Anch’egli, come Holmes, necessita della pratica per dare corpo ai ragionamenti: un terrorista d’intelletto.
La lotta tra i due avviene senza esclusione di colpi. Non solo essi rappresentano due volti della stessa medaglia – folli entrambi, l’uno pazzo “giusto” e l’altro delirante assassino – ma incarnano anche l’eterna lotta del cinema spettacolare tra logica e azione. Immaginare ciò che avverrà appartiene alla capacità di osservare e intuire. Mettere in atto personalmente il frutto delle proprie riflessioni richiede coraggio fisico e sprezzo del pericolo. In questa pellicola, frutto di un amore appassionato tra vecchia Europa letteraria e Hollywood fantastica, la fusione non sembra avvenire mai in modo fluido e trasparente, come sarebbe accaduto invece nell’avventura classica. Tuttavia non bisogna pensare a un difetto di fabbricazione, a un errore o a un limite del film. Anzi, vediamo rappresentata con grande intelligenza la continua oscillazione tra pensiero e attacco, logica e impeto, cervello e forza, macchinazione e lotta concreta. E la sequenza della partita a scacchi, da non svelare a chi deve ancora vedere il film, ne è l’appassionante conferma.