rovin
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lunedì 13 settembre 2010
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meraviglioso
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Una storia raccontata con tatto e delicatezza. Se vi è piaciuto Lost in translation amerete anche questo film. Girato brillantemente, attori molto bravi. Le scene di lunga durata creano la giusta atmosfera e fin dall'inizio lo spettatore viene invitato a sedersi comodamente sulla poltrona e ad assaporare l'intero film.
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olgadik
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martedì 7 settembre 2010
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antonioni docet
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Abbiamo scoperta Sofia Coppola con Lost in translation, ammirevole esempio di come si possa narrare per sottrazione, affidandosi a pause, a scarne e incisive parole, tipo poesia ermetica, a una fotografia che punta sul particolare dilatandolo, all’esaltazione del valore mimico del viso umano. Tali elementi della sua grammatica personale, insieme all’uso della macchina fissa, del piano sequenza e dello zoom, ritornano in quest’ultima prova, dove l’autrice disegna un ritratto di solitudine esistenziale e moderna alienazione. Personaggio principale è Johnny Marco, un notissimo divo americano che tra un film, una premiazione, un’intervista trascina giorni sostanzialmente insignificanti. Luogo deputato del suo agitarsi senza muoversi, dei risvegli obnubilati, del continuo attaccarsi alla bottiglia, del nutrirsi di orrendi cibi e di insipide prove erotiche è un albergo di Los Angeles, lo Chateau Mormant, noto per divenire spesso rifugio sostitutivo della casa per molte star.
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Abbiamo scoperta Sofia Coppola con Lost in translation, ammirevole esempio di come si possa narrare per sottrazione, affidandosi a pause, a scarne e incisive parole, tipo poesia ermetica, a una fotografia che punta sul particolare dilatandolo, all’esaltazione del valore mimico del viso umano. Tali elementi della sua grammatica personale, insieme all’uso della macchina fissa, del piano sequenza e dello zoom, ritornano in quest’ultima prova, dove l’autrice disegna un ritratto di solitudine esistenziale e moderna alienazione. Personaggio principale è Johnny Marco, un notissimo divo americano che tra un film, una premiazione, un’intervista trascina giorni sostanzialmente insignificanti. Luogo deputato del suo agitarsi senza muoversi, dei risvegli obnubilati, del continuo attaccarsi alla bottiglia, del nutrirsi di orrendi cibi e di insipide prove erotiche è un albergo di Los Angeles, lo Chateau Mormant, noto per divenire spesso rifugio sostitutivo della casa per molte star. La regista usa quasi tutto il primo tempo per definire il suo ritratto, a partire dagli insensati ma simbolici giri di pista che il protagonista compie sulla Ferrari nelle prime inquadrature del film. All’inizio il ritmo è decisamente lento e tale rimane, come ho già detto, con alcune citazioni dirette all’Antonioni (vedi partita a tennis). Accadono soltanto i riti del quotidiano, svuotati di qualsiasi partecipazione vera, tutto si svolge nel “deserto rosso” dei sentimenti, il divo si lascia vivere continuando la propria inerzia emotiva e subendo passivamente ogni tipo di moda. Poi nel suo albergo-abitazione arriva, per fermarsi un po’ più a lungo del solito week-end col genitore divorziato, la figlia undicenne Cleo. A partire da questo momento qualcosa accade. La forza “seduttiva” della ragazzina che vuole conquistare il padre assente e distratto, si dispiega con tutta la grazia e la forza dell’età. Nasce tra i due un colloquio fatto di complicità, sguardi che si parlano, piacere di stare insieme e tali sentimenti, anche quando la figlia va via per il suo campo estivo, continuano a scavare dentro il padre. Così nelle ultime scene Johnny ritrova la capacità di scelta e di azione nella realtà, buttandosi alle spalle il vuoto e il falso. La Ferrari nera viene abbandonata sul ciglio di una strada extraurbana mentre il protagonista si allontana a piedi. La sua palingenesi comincia da qui.
In quanto alla recitazione non sembra significativa la prova di Stephen Dorff, mentre efficacissima risulta la deliziosa adolescente Elle Fanning con il suo muso triangolare e lo sguardo di chi la sa più lunga di quel padre inaderente e imbambolato. E’ su questo personaggio di piccola donna che si appunta l’intuito della regista e la capacità di raccontare una persona tramite mezzi minimali, senza drammi né patetismi ma con una asciuttezza non distante. E’ questa capacità, insieme alla fotografia di grande impatto visivo, a costituire la parte migliore del film. Nel complesso l’opera avrebbe guadagnato da un ritmo meno lento e tedioso come quello della prima parte, poiché uno stile, un linguaggio può diventare noiosamente formale se l’autore lo usa abusandone.
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(di francesco2)
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aesse
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giovedì 9 settembre 2010
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il passaporto per l’altrove
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L’aver saltato il passaggio dell’acquisizione della coscienza per potere usufruire dei suoi stati alterati è stato l’equivoco di un’epoca. Così è per Sofia Coppola che con il suo “ Somewhere”, di cui è anche sceneggiatrice, indica con lievità e rilassatezza, questo è un film che fa stare bene, senza forzature né ideologia, la strada per raggiungere quell’ “altrove” che, chi si affida alle scorciatoie artificiali, si può ben scordare! Di fronte a quella, che a mio giudizio, è la scena topica ed anche la più bella di tutto il film, ogni dubbio sulla veridicità di tale lettura si smorza: in un lungo silenzio raro, durante l’essiccazione della maschera da trucco cinematografico a cui si sottopone il protagonista della storia attore holliwoodiano di successo, si assiste ad i primi accenni di dubbio e di riflessione che il trucco da vecchio impone al nostro bellone così che si può dire che una maschera fa “ cadere la maschera”.
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L’aver saltato il passaggio dell’acquisizione della coscienza per potere usufruire dei suoi stati alterati è stato l’equivoco di un’epoca. Così è per Sofia Coppola che con il suo “ Somewhere”, di cui è anche sceneggiatrice, indica con lievità e rilassatezza, questo è un film che fa stare bene, senza forzature né ideologia, la strada per raggiungere quell’ “altrove” che, chi si affida alle scorciatoie artificiali, si può ben scordare! Di fronte a quella, che a mio giudizio, è la scena topica ed anche la più bella di tutto il film, ogni dubbio sulla veridicità di tale lettura si smorza: in un lungo silenzio raro, durante l’essiccazione della maschera da trucco cinematografico a cui si sottopone il protagonista della storia attore holliwoodiano di successo, si assiste ad i primi accenni di dubbio e di riflessione che il trucco da vecchio impone al nostro bellone così che si può dire che una maschera fa “ cadere la maschera”. La vita del protagonista, fino a quel momento, è solo vita da attore, di un attore di successo che posteggia l’auto a Los Angeles nei pressi della famosa palma delle cartoline, quella di Mario Schifano, scambia 2 parole con il condomino Benicio Del Toro, beve fino allo stordimento, fuma per non saper che fare e si annichilisce con le sguerguenze simil erotiche di una coppia di biondine che fa acrobazie attorno al palo da lap dance, poi smontato come quello di una “canadese”, fino al trastullo successivo. Jhonny vive in una condominio con gente come lui, che transuma da un luogo all’altro alimentando feste dove si beve e ci si sballa così tanto da non sapere perché, in un appartamento in cui la solitudine è ancora fatta di alcol e fumo ed anche il sesso se pur casuale e puramente ginnico è comunque troppo vero da sopportare così che Jhonny una volta catturata la bionda preda non riesce a portare a termine l’operazione e si addormenta sul pezzo… Ma tutto cambia quando con la deliziosa figlia 11enne di nome Clio, la musa della musica, irrompe la verità e una realtà alternativa comincia timidamente a formarsi, contrapponendosi al fatuo clamore del successo che emblematicamente manifesta il suo acme alla premiazione dei Telegatti. Nasce allora una realtà fatta di attenzione alle cose dimenticate, morbida, nella serena pienezza dello stare accanto a quel rassicurante futuro che i figli rappresentano per tutti noi. “ Ed egli corse incontro alla vita sorridendo…”questo è il didascalico finale, perché è così che si ha da fare: abbandonando gli orpelli e impacchettando il passato leggeri e liberi con il passaporto per “ l’altrove”. Si chiude così il cerchio che si comincia a delineare nella primissima scena del film che è esperienza di un’opera di armonia in cui non si riesce a stabilire se la forma sia al servizio del contenuto o viceversa proprio come per quelle canzoni perfette che è inutile chiedersi se il primato sia della musica o delle parole: ci conviene cantarle!
ANTONELLA SENSI
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