La famiglia Savage |
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Un film di Tamara Jenkins.
Con Laura Linney, Philip Seymour Hoffman, Philip Bosco, Peter Friedman, Gbenga Akinnagbe.
continua»
Titolo originale The Savages.
Commedia,
durata 113 min.
- USA 2007.
- 20th Century Fox Italia
uscita venerdì 25 gennaio 2008.
MYMONETRO
La famiglia Savage
valutazione media:
3,60
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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Interno di famigliadi babaFeedback: 0 |
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venerdì 29 febbraio 2008 | ||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Sun City non è la copertina che traduce l’Utopia ingiallita del buon Campanella. Non è una città in cui girano filosofi, maestri, insegnanti seguiti da attenti cittadini desiderosi di apprendere l’arte del progresso collettivo. Non è neppure il tentativo ardito di una piccola comunità postsessantottina in cui la proprietà privata è bandita come il più sacrilego attentato alla felicità umana. Sun City, Stati Uniti, Arizona, è il paradiso degli umani elefanti, stracci di pelleossacataratte che svernano gli ultimi anni in un quartiere che pare uscito dagli Studios: casette linde tutte identiche, giardini ariosamente impeccabili, navette che spolano da un campo all’altro di golf, da mattina a sera, sempre che l’artrosi non impedisca lo swing. E’ la cartolina ideale per polli ultrasessantenni: sole corroborante, spiaggia di candida battigia, popolazione che se non hai colori muriatici sul viso ed una robusta carta di credito ti fissa con ribrezzo. E’ il luogo più dorato che un figlio possa immaginare quando di babbo e di mamma gli importa solo l’eredità e non gli ultimi palpiti prefunerari; il posto che tacita qualsiasi germe di coscienza irrequieta, di timor d’ingratitudine non celata. La famiglia Savage ha tre cuori che cuciono vite a centinaia di miglia tra loro: John insegna letteratura, ha il chiodo di Brecht, da anni perlustra le vie di un saggio sul drammaturgo tedesco che riesca a schiudergli conferenze, pubblicazioni internazionali, la gloria dei peana; Wendy lotta con racconti sempre respinti, velleità di scrittrice che sbattono contro borse di studio mai vinte, farmaci nel beautycase che pillolano ogni giorno segmenti di coraggio fittizio; infine c’è il vecchio che in fondo troppo vecchio non è, un’entità astratta di padre sulla costa opposta alla loro, alle prese con una nuova realtà femminile dopo la prima moglie ed i due figli. Ognuno si cuoce nel fardello che ha scelto senza cura alcuna per l’altro, una telefonata ogni tanto per i saluti di circostanza, qualche parola generica, la promessa: ci vediamo presto, sapendo bene che la volontà tira altrove. Ma la malattia non ha riguardo per esistenze che non si odiano semplicemente perché s’ignorano: l’Alzheimer sbuca fuori quando meno te l’aspetti, succhia ossigeno al cervello, la pompa dell’intelletto batte botte, singhiozza lucidità, lentamente s’irradia nei nervi del collo, delle cosce, del piede; ti minora riducendoti ad un bimbo impertinente, ad un confuso scherzo di memoria. Ed il vecchio padre si ritrova solo. La compagna che fuori dal matrimonio lo aveva accolto resta fulminata all’improvviso ed un minuto dopo la sua beneamata figliola si avvoltoia rapida su beni propri ed altrui: ben gli sta, alle coppie di fatto! Così la realtà porta il conto a John e Wendy, gli ricorda che qualcuno ha messo il seme, il pasto, una prima educazione e che ora bussa, tremante e stordito, alle loro porte. Niente è più come prima: Brecht appare ancora più lontano, i farmaci diventano frenetici tentativi di sedare ogni tumulto di infelicità, la lettura colta viene sostituita dalle brochure dei cronicari, anche se il nome e la foto camuffano il misfatto. Due solitudini sono costrette a convivere tempi, luoghi, ricerche, pannoloni, spese, decisioni: più razionale, fin troppo, lui; impulsiva, ma caotica e perennemente insoddisfatta, lei. Se il film fosse stato di produzione timbrata a cinque stelle, con distribuzione levigata nel mondo e lanci pubblicitari fino in cielo, avremmo avuto uno sviluppo consolatorio: fratello e sorella finiscono per intendersi, si capiscono, si perdonano, formeranno una famiglia coi loro rispettivi amanti e festeggeranno il 4 luglio tutti insieme in giardino davanti al barbecue. Ma la Jenkins, per fortuna, regista, sceneggiatrice, donna del tutto indipendente, non vuole consolarci in modo sconsiderato, ha scelto attori strepitosi che non hanno nulla del patinato divo che finge di calarsi nell’ordinaria mediocrità del vivere. Laura Linney e Seymour Hoffman odorano di rabbia, scompostezza, frustrazioni, speranze che covano come cenere e che teniamo sepolte perché non si disperdano del tutto. Grazie a loro la regista mostra come due fratelli, distanti da Caino e Abele ma neppure complici, possano trovare un piccolo equilibrio, un abbozzo di sincera comunicazione partendo da stadi di insofferenza abissale. Le baruffe certo continuano, qualche colpetto di gelosia assesterà ancora il suo tiro rancoroso, ma almeno finisce quel doloroso ignorarsi che spesso scandisce la nostra quotidiana camminata nel mondo. Almeno tutti e due, a modo loro, guarderanno al padre non più come ad un oggetto da parcheggiare a distanza, ma come nervi e sangue che li hanno alimentati e che ora bisogna accompagnare nel campo che più non frutta. Sapranno accettare la morte senza ipocrisia, senza camere costosamente dorate che nascondano la verità; impareranno a scrutare in un segno la voce dell’ultimo giorno. Un infermiere gli spiega che la fine è vicina quando le dita dei piedi si arricciano, che non è un fatto scientifico e spiegabile, ma pare accada così, e allora Wendy fruga fra le lenzuola l’arco del pollice, fissa il bonsai mignolo del babbo con la dolcezza ingenua di chi in qualche modo, inaspettatamente, vorrebbe sperare in un giorno, almeno un giorno supplementare per quel padre pure così snaturato. E noi ci riconosciamo in quel gesto, e rimaniamo sorpresi a pensare che troppe volte è la morte a riportarci in vita visi e tumulti che credevamo, fingendo con noi stessi, di aver già dimenticato.
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