L'amore non basta mai

Natalia Aspesi

Il cinema scandinavo si occupa molto della famiglia, della famiglia fondata sul matrimonio di cui tanto si discute ora in Italia, per opporla alle coppie di fatto che la Chiesa vede come Satana. Se ne occupa per difenderne la necessità, però rivelandone il buio, il dolore che può nascondere, dentro la sua apparente serenità e saldezza. Accade nel bel film di Maria Blom L’amore non basta mai. Mia, una giovane donna che sta facendo carriera a Stoccolma, torna nel paesino di provincia dove vivono i suoi, per festeggiare il 70° compleanno del padre. È un mondo che non le appartiene più, che la mette a disagio coi suoi pettegolezzi e le sue chiusure. Ritrova le sorelle maggiori che sono rimaste e hanno messo su famiglia: Eva, moglie, madre, donna di casa esemplare; e Gunilla, la più anziana, che si è appena separata e ha due figlie grandi. Eva sorride sempre ma nasconde un’amarezza, un’inquietudine, una depressione che la rendono ostile alla sorella che s’è sottratta alla placida esistenza di paese per vivere lontano, Gunilla ride sempre, ma non ne può più di raccontare la sua straordinaria evasione: in vacanza a Bali, lei, donna matura, ha osato avere un’avventura con un ragazzo e ne è rimasta folgorata, vivificata. Mia si sente estranea alle persone, ai riti, ai discorsi, all’isolamento, all’immobilità che non sono più il suo mondo: il ragazzo che, forse, ha amato da adolescente, è diventato uno scapolone apparentemente sfaccendato, i genitori parlano solo di malattie e decessi, l’affetto si esprime rimpinzandosi di pane e burro, quell’atmosfera di amore, allegria, solidarietà è in realtà percorsa da un senso di fallimento, ipocrisia, ostilità. Tutti parlano di sé, della propria vita soddisfatta, nessuno chiede a Mia di lei, della sua: per gelosia o forse invidia, o per non rivelare il proprio sperdimento. Le lacrime, la rabbia si nascondono chiudendosi in bagno, nel ripostiglio a sfogarsi da sole, perché Mia non sappia, perché nessuno sappia. Eppure anche Mia ha una grande ferita, e tornando a casa ha sperato di ritrovare il calore della famiglia, la confidenza tra sorelle, la possibilità di rivelarsi, farsi ascoltare, aiutare. E la sera della festa di compleanno, preparata con affetto e rabbia, per abitudine e decoro, tra montagne di cibo, fiumi di birra e l’orchestrina, nei 4 malinconici salti tra amici, i contrasti si accendono, la disperazione si manifesta. Eppure alla fine, nel dolore, nella perdita, nella capacità tutta nordica di controllare i sentimenti e le emozioni, la famiglia si ricompone: è comunque un legame, un sostegno, il luogo che può difenderti dalla solitudine, cui ricorrere se ti senti perduta. Come spesso nei film che vengono da Svezia, Danimarca, Finlandia gli uomini appaiono come la parte debole della società e soprattutto della coppia: detestano l’imperio delle donne eppure non possono farne a meno, e non sanno liberarsi dalla figura paterna. Uomini rinunciatari, che non osano affrontare il mondo e si chiudono nella quotidianità senza scosse e senza gioia, vivendo alla giornata. Le attrici, gli attori, a noi ignoti, sono molto bravi e danno alla storia i volti della realtà, le facce qualsiasi, i corpi appesantiti, gli anni che alterano gli sguardi, i goffi abiti di chi ha smesso di piacersi. Per questo sono credibili e commuovono anche noi, abituati alle facce da fiction: facce finte per storie finte.
Da D di Repubblica, 8 ottobre 2005


di Natalia Aspesi, 8 ottobre 2005